L'INTERVENTISTA
UN FOCOLARE DI FEDE
Quando
scoppiò la guerra europea, Filippo Corridoni si trovava in carcere, per
una delle solite montature giudiziarie, con le quali la polizia si
illudeva di «mettergli giudizio».
Corridoni
era allora alla testa dell'Unione Sindacale Milanese ed io — ritornato
dall'esilio l'anno precedente — facevo vita comune con lui in una
modesta «pensione»
posta al quarto piano di una casa di via Eustachi, nei nuovi quartieri
fra Porta Venezia e Loreto. Oltre a Corridoni ed a me, s'assidevano
quotidianamente al desco della «pensione»
Attilio Deffenu — un piccolo sardo, morto anch'e gli eroicamente al
fronte combattendo con la Brigata Sassari —Michele Bianchi, Cesare
Rossi, e mio fratello Amilcare, compagno di Corridoni nella dirigenza
dell'Unione Sindacale Milanese.
Era
un cenacolo rivoluzionario, la «pensione» di via Eustachi, e non
mancava di carattere. L'omogeneità politica di coloro che la componevano
non escludeva le più profonde diversità individuali. Ma fra quegli
uomini di tutte le razze e di tutti i temperamenti, che s'armonizzavano
in una idealità comune, vigeva un'amicizia, così sincera e fraterna da
escludere perfino — cosa estremamente rara nei cenacoli politici — le
meschine gelosie, le malignità e le maldicenze reciproche.
Io,
che ho avuto la fortuna di far parte di quel gruppo fino a che la
guerra non venne a scioglierlo, non posso ripensare senza commozione
alla «pensione» di via Eustachi. Povera «pensione», divenuta silenziosa e
vuota dalla fine del maggio 1915: mentre prima era così piena di
fervore, di entusiasmo operoso, di feconde discussioni, di amichevoli
alterchi, di voci e di risa!
Essa
era un po' lo scalo del sindacalismo rivoluzionario italiano ed
internazionale. Ben pochi degli agitatori più noti non sono passati
nella saletta da pranzo della «pensione» di via Eustachi e non si sono
assisi a quella tavola. Per non parlare che dei morti, ci veniva Vidali,
che portava seco la nostalgia della sua Trieste; Chiasserini, ancora
legato formalmente al partito socialista, ma con lo spirito e con
l'opera interamente con noi; Reguzzoni, fervido di vita; Rabolini, con
un viso di fanciulla, maschera dolce di una volontà eroica; Peppino e
Baldino, i due fratelli di Corridoni; il modesto e valoroso Luigi
Maltoni, da un paese della Romagna che ha un nome evocatore di meridiane
luminosità: Terra del Sole... Tutti questi che ho nominato caddero in
guerra, con la divisa del volontario d'Italia. Gli altri che sono
passati nella piccola saletta della «pensione» di via Eustachi non è
possibile ricordarli tutti. Anche dall'estero giungevano gli ospiti:
francesi, belgi, inglesi, russi... Vi furono persino degli armeni e
degli ungheresi.
A
volte — sarebbe meglio dire: assai spesso — attorno alla tavola che ci
accoglieva due volte al giorno, c'era qualche posto che rimaneva vuoto
per delle lunghe settimane. Per lo più era quello di Filippo Corridoni;
ma anche gli altri, di quando in quando, si assentavano: si trattava di
villeggiature più o meno brevi... al Cellulare. Eppure, malgrado queste
tristezze, malgrado l'ardore delle lotte nelle quali eravamo impegnati,
la insidia che sentivamo attorno a noi, i pericoli di ogni ordine che
continuamente ci minacciavano — eravamo lieti e vivacemente disposti a
godere quel poco che la vita ci offriva, nella modestia estrema delle
nostre condizioni economiche, fra l'una e l'altra battaglia, fra un
periodo di prigionia ed un altro di esilio. Eravamo tutti giovani, ma
già veterani delle più aspre lotte che si combattessero allora; e
sembrava che un oscuro presentimento ci sollecitasse a cogliere le brevi
ore di gioia con l'avida fretta di chi nol potrà più fare domani: «Chi
vuol esser lieto sia — del doman non v'è certezza», ripeteva spesso
Corridoni che riempiva volentieri la «pensione» delle sue fresche
fragorose risate ed aveva «nondimeno velati sovente gli occhi di una
lieve mestizia, come se l'ombra dell'avvenire e della morte, si
protendesse, ignota a lui stesso, sull'anima sua».
LA GUERRA!
Venne
l'attentato di Serajevo, e poi — con rapido rovinìo, che
l'Internazionale, in cui noi credevamo, non tentò neppure di rallentare
—la guerra! Io avevo passato quindici giorni d'inferno, dopo l'invasione
barbarica del Belgio, mentre nell'animo mio rissavano atrocemente le
ideologie alle quali avevo creduto fino a quel momento e la tremenda
realtà che le distruggeva con l'impeto inesorabile delle baionette
tedesche. Mi risolsi infine a dir forte quel che la coscienza mi
dettava, cogliendo l'occasione di un invito rivoltomi dall'Unione
Sindacale Milanese perché parlassi su «Il Proletariato e la Guerra».
La
vigilia della conferenza confidai ai miei compagni della «pensione» : —
Domani dirò delle cose che forse mi metteranno contro tutta la massa
operaia. Ma questo è il meno: mi addolorerebbe assai più se dovessi
romperla anche con voi altri...
I
compagni della pensione — che erano tutti presenti, meno Corridoni
arrestato, come già dissi per una delle solite montature giudiziarie —
mi risposero promettendo di non mancare alla conferenza. Quella sera si
mangiò in un silenzio assai triste. I compagni intuivano che io avrei
detto quel che essi stessi pensavano senza osare di confessarlo. Tutti
si aveva la sensazione di trovarsi ad uno di quei passi decisivi che non
si fanno a cuor leggero. Era tutto il nostro passato, l'idolo cui
avevamo sacrificato interamente la nostra giovinezza, che ci preparavamo
ad abbattere colle nostre mani iconoclaste. E sorgeva anche il dubbio
angoscioso che la nostra fraterna amicizia, cementata dalla continua
cooperazione di intenti e di opere, potesse andare infranta nel cozzo di
quel momento tragico.
La
sera dopo fummo lieti di ritrovarci ancora spiritualmente uniti come
prima. I compagni mi avevano attentamente ascoltato senza trovare nessun
punto essenziale di dissenso nella dimostrazione da me fatta della
necessità dell'intervento italiano nella grande guerra. Tutti erano
d'accordo nel riconoscere che non si poteva e non si doveva tacere
quello che la nostra coscienza di uomini e di rivoluzionari ci imponeva
di conclamare come una dura verità. La gioia della confermata unione dei
nostri spiriti era turbata soltanto da un dubbio: — Che cosa avrebbe
detto Corridoni? Corridoni, così fervido ed assolutamente convinto nel
suo antimilitarismo, Corridoni che poteva giustamente sentirsi
esasperato per il recente iniquissimo arresto, Corridoni isolato nel
carcere, dove difficilmente penetrano le nuove correnti di idee, perché
sono ignoti o mal noti ai rinchiusi i fatti che le determinano,
Corridoni avrebbe compreso il nostro atteggiamento? Non ce lo saremmo
forse trovato contro, con tutto il suo vigore combattivo, con l'enorme
potenza della sua volontà e della suggestione che esercita sulla folla,
con la capacità ben nota in lui di lotta e di sacrifizio, non appena
fosse uscito dal Cellulare?
Il
dubbio continuò a tormentarci tanto che fu deciso un colloquio con
Corridoni per sapere che cosa pensava. Fummo incaricati Deffenu ed io di
recarci al Cellulare. Ricordo ancora, come se fosse stato ieri, la
commozione che ci invase quando ai nostri accenni piuttosto cauti
Corridoni proruppe in una delle sue belle risate prendendo in giro la
nostra diplomazia e dichiarandosi completamente d'accordo con noi. — Sì,
la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo
volerla e farla, non appena l'Italia fosse scesa in campo... Corridoni
diceva questo nel parlatorio triste, sotto gli occhi vigili del
secondino. Ma nel carcere in cui soffriva ingiustamente aveva già
preparato se stesso al sacrifizio. La sua giovinezza era l'olocausto che
offriva alla Patria matrigna, prodiga per lui soltanto
di persecuzioni e di fame.
LA CAMPAGNA PER L'INTERVENTO
Appena
uscito dal Cellulare, Corridoni si gettò nella lotta furibonda, già
iniziata per l'intervento dell'Italia. Vi si gettò come sapeva far Egli,
senza respiro e senza limiti, con tutto l'impeto del suo entusiasmo e
della sua fede assoluta, con un ardore di sacrifizio che preludeva al
sacrifizio estremo cui si era votato.
«E'
rimasto memorabile — scriveva, commemorandolo pochi giorni dopo la
morte, Attilio Deffenu — il comizio tempestoso all'Arte Moderna, verso
la fine del novembre 1914, ove il problema dell'interventismo
rivoluzionario era posto per la sincerità davanti alla perplessa
coscienza operaia; ma è sconosciuto, eccetto che agli intimi, un
episodio che mi piace rievocare. Nel pomeriggio del giorno fissato per
il comizio, Corridoni aveva ricevuto dalla famiglia un dispaccio
telegrafico ove gli si annunziava un improvviso aggravamento delle
condizioni di salute della mamma inferma: sembrava prossima una
catastrofe il colpo fu terribile: ma il comizio era indetto: mancare
poteva sembrare una fuga, certo significava esporsi alle critiche
perfide e maligne degli oppositori neutralisti. E vi andò, è facile
immaginare con quale animo; parlò, come egli solo sapeva e poteva, con
alta e commossa eloquenza, vincendo l'urlante canea dei socialisti
assoldati da Bulow, riuscendo, nonostante l'organizzato ostruzionismo, a
farsi ascoltare e applaudire. A un certo punto, ricordo, egli prese a
dire per quali ragioni, nonostante la sua incrollabile fede
internazionalista, non si sentiva di poter rinnegare la patria, il paese
che gli aveva dato i natali, dove si parlava il dolce idioma della sua
mamma...
—
Federzoni! — L'invettiva tendenziosa, mi ante a snaturare il sentimento
ideale che moveva Corridoni ed a dipingerlo come un transfuga dell'idea
sindacalista rivoluzionaria ch'Egli amava al di sopra di tutto, risuonò
nell'aula solcata dai lampi dell'ira, arrossata dal fuoco irrompente
delle passioni.
«Egli
si volse verso il gruppetto degli insani, non fiatò. Ma chi gli era
vicino vide una lacrima scendergli per la gota, vide Lui trangugiarla in
silenzio, penosamente, «sentì» che il suo pensiero era rivolto alla
madre lontana che forse in quel momento agonizzava in un letto di
dolore... «Nel febbraio di quest'anno (1915) veniva ancora arrestato in
treno, sotto l'imputazione di un reato di stampa, mentre si recava a
Treviso a tenervi una conferenza a favore dell'intervento. E dal carcere
mi scriveva il 24 febbraio: «Vedo che la vostra propaganda per
l'intervento è incessante. Ne sono proprio contento. I neutralisti
avranno indubbiamente tratto profitto dal mio arresto, gridando che in
Italia la libertà vien più manomessa che in Austria, ecc. Di' loro che
per quanto io sia trattato alla tedesca, griderò sempre: Viva la
guerra!, e che ci vuol ben altro che queste piccole miserie per scuotere
la mia profonda e radicata convinzione che solo dalla sconfitta degli
imperi centrali l'Europa può essere trascinata verso una maggiore e più
solida libertà».
Nel
marzo, dopo un processo alle Assise, venne nuovamente posto in libertà
ed egli tornò alla battaglia interventista con un vigore che il carcere
sembrava aver rinnovellato.
Chi
non rammenta l'opera magnifica di Corridoni, culminante nelle giornate
del maggio 1915, quando furono travolte in un'ondata di passione le
resistenze neutraliste? In quei giorni memorabili, Corridoni fu
veramente il dominatore di Milano. Le piazze e le strade erano sue. La
sua parola vi accendeva fiamme di entusiasmo, la sua persona ed il suo
gesto trascinavano la folla alle ultime vette della volontà eroica.
Molti vi sono certamente che hanno ben lavorato per l'intervento; ma
nessuno, in Italia, può dire di aver dato alla Causa più di Filippo
Corridoni. Egli non offriva soltanto se stesso, l'opera sua
instancabile, la sua pura giovinezza: offriva anche la popolarità
guadagnata in otto anni d'instancabile fatica, attraverso rinunzie e
pene inenarrabili. Tutto bruciava sull'ara della Patria vista con occhi
di figlio nell'ora del dolore. Colui che aveva conosciuto la Patria
soltanto nella forma odiosa del poliziotto persecutore e del giudice
iniquo.
Alceste De Ambris - 1922
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