Pubblichiamo il profilo dedicato a Filippo Corridoni dal suo compagno e commilitone Alceste De Ambris e pubblicata nel 1922. In questo primo contributo De Ambris si sofferma sulla biografia e sul carattere rivoluzionario del protagonista.
PREMESSA
I
lettori comprenderanno senza sforzo perchè le pagine che presentiamo
qui innanzi, lungi dall'avere la pretesa di una rigida e gelida
obbiettività, risentono vivamente dell'affetto fraterno che legò il
biografo a Filippo Corridoni, negli ultimi dieci anni della vita di
questi; perdoneranno perciò il loro carattere spiccatamente personale.
Il
biografo dubita tuttavia di poter trasmettere ai lettori la sensazione
del commosso ardore con il quale ha scritto: soltanto chi ha avuto la
fortuna di conoscere Filippo Corridoni e di amarlo e di esserne amato,
nella intimità di una lunga amicizia, può comprendere interamente
questo, che la penna è impari ad esprimere.
Perchè
Filippo Corridoni non era solamente un magnifico agitatore, un
condottiero di folle audace ed esperto, un soldato eroico della sua
fede: egli era anche un dolce amico, un indimenticabile compagno, un
irresistibile fascinatore di anime.
Ricordiamo
che, essendo Egli stato a Parigi una sola volta e per pochi giorni, era
riuscito a lasciare un ricordo incancellabile perfino negli uomini più
freddi di quell'ambiente scettico e blasé, che ce ne parlavano ancora dopo molti mesi con affettuosa ammirazione.
Donde
venisse quella sua singolare magnetica forza d'attrazione ch'Egli
inconsciamente esercitava anche sugli individui meglio corazzati e più
refrattari, non meno che sulle folle, ognuno che abbia intelletto
d'amore potrà intendere, leggendo le pagine autobiografiche che
pubblichiamo più innanzi.
Di Corridoni si può ben ripetere quello che Mazzini scriveva di Jacopo Ruffini : «Io non trovo qui sulla terra, fra quei che hanno concetto di fede e costanza di sacrifìcio, creatura che ti somigli».
Filippo
Corridoni era, difatti, uno di quegli esseri privilegiati che
riassumono e sublimano in una sintesi individuale completa le più nobili
virtù della stirpe e della generazione cui appartengono.
Anche
nei migliori la sincerità della convinzione è qualche volta sfiorata
dal dubbio, la volontà del sacrificio trattenuta da esitanze, la
profondità della fede turbata da umane debolezze. In Corridoni questo
non avveniva mai. Egli aveva raggiunto l'assoluto senza sforzo, perchè a
tale lo portava la sua natura di eccezione.
Santa Caterina diceva: «Et si religio jusserit signemus fidem sanguine».
Filippo Corridoni non poneva nemmeno il condizionale. Per Lui,
affermare col sangue la fede non era una eventualità: era un
comandamento certo, un dovere preciso.
Forse
era questa ormai tranquilla certezza del sacrifìcio che gli permeteva
di conservare in mezzo alle prove più aspre quella mirabile serenità,
quella fresca letizia giovanile che lo rendeva carissimo a quanti lo
conoscevano, come una dote estremamente rara negli uomini la cui vita è
una lotta senza riposo.
E
tuttavia cadrebbe in un grossolano errore chi credesse che il concetto
di un dovere superiore fosse in Filippo Corridoni causa od effetto di
fanatismo cieco d'impeto irragionevole, d'unilateralità sentimentale non
sussidiata dalla conoscenza necessaria dei fatti reali e della loro
relatività.
Corridoni,
come tutti coloro cui le urgenze continue della azione non concedono
l'agio di una riposata meditazione, non ebbe mai tempo di documentare
scrivendo libri, quanto il suo vivacissimo intelletto, maturato da una
più che decennale esperienza, poteva produrre. Le manifestazioni di
pensiero ch'Egli ha lasciato son quasi tutte frammentarie: articoli di
giornali, relazioni di Congressi, lettere, i suoi mirabili discorsi,
sempre improvvisati, non furono raccolti se non in riassunti affrettati,
scialbi, insignificanti. E non è più possi bile ricostruirli.
Il
lavoro più completo di Corridoni consta appena 113 cartelle scritte
durante la sua permanenza in carcere, nel'aprile del 1915: brevi pagine,
dunque, ma che nella loro concisione hanno tanta originalità di
concetti ed acutezza di osservazioni da poter servire di traccia a più
di un grosso volume.
Quelle
pagine che — per la data in cui furono scritte, appena sette mesi prima
della morte — possono essere ritenute come il suo pensiero definitivo,
meditato e misurato al pari di un testamento, dimostrano che
l'entusiasta trascinatore di folle, il combattente che ardeva di
sacrificarsi, era anche un formidabile ragionatore, fornito d'una
coltura poco comune vivificata da una intelligenza limpidissima e da una
libera ed ampia visione del problema nazionale e sociale.
Nel
silenzio triste e raccolto della cella carceraria, Colui che si
preparava ad offrire alla Patria l'olocausto santo della sua giovinezza
senza macchia, vedeva la realtà storica futura con meravigliosa
chiarezza.
Certe
sue pagine hanno valore di profezia, duramente confermata oggi dai
fatti. Eppure anche davanti alla netta percezione del vero valore e dei
risultati non decisivi di quel sacrificio a cui si disponeva, Egli —
volontario morituro — rimaneva fermo nell'accettare la guerra con
ardente volontà suscitatrice d'inarrivati eroismi.
Giacché
Corridoni era, così sicuro di sé e tanto superiore ad ogni umana
debolezza, da non aver neppure il bisogno del conforto di una grande
illusione per accingersi al compimento del supremo dovere liberamente
prescelto. Non respingeva la gelida verità obbiettiva, non cercava
d'ingannare se stesso
commisurando
il risultato previsto alla grandezza che il sacrificio si disponeva a
compiere. Sapeva e diceva che la guerra avrebbe potuto dare soltanto
risultati di gran lunga inferiori a quelli che una speranza lusinghiera e
fallace lasciava intravedere. Eppure andava serenamente alla guerra.
Corridoni
ci ha perciò lasciato — con la sua memoria inobliabile — un grande
insegnamento di cui bisogna far tesoro: davanti alle necessità
riconosciute, anche se dure — per la pienezza della lotta indispensabile
alla vita ed alla libertà di un popolo, di una classe, di un individuo —
non bisogna mai accasciarsi nel deluso sconforto; ma trarre anzi motivo
dalla durezza delle necessità che s'affacciano per affrettare più
alacremente l'opera nostra.
FonteAlla
memoria di Lui intendiamo pertanto di rendere un triplice omaggio senza
velare in alcun modo la schiettezza della nostra parola. Se coloro che
ci leggono hanno — come crediamo — nobiltà di sentimento, quali che
siano le loro convinzioni politiche e sociali, comprenderanno perchè non
abbiamo voluto mutilare Corridoni, parlando soltanto dell'interventista
e del Volontario. Anche il Rivoluzionario deve essere compreso ed
ammirato dagli italiani che vogliono onorare sinceramente la memoria
dell'Animatore e dell'Eroe, perché fu appunto sul terreno della fede
rivoluzionaria di Filippo Corridoni che germogliò magnifico il fiore
purpureo del Suo sacrificio per la Patria.
IL RIVOLUZIONARIO
NEL ROVETO ARDENTE
Conobbi personalmente Filippo Corridoni per la prima volta durante il memorabile sciopero agrario parmense del 1908.
All'inizio
del movimento egli si trovava a Nizza, dove si era rifugiato per
sfuggire alle conseguenze di una condanna a vari anni di reclusione
riportata a Milano per antimilitarismo. Quando la lotta fu nel periodo
culminante lo vedemmo piombare a Parma, sotto il nome di « Leo Cervisio
», col suo viso sorridente di fanciullo e con un paio di calzoni troppo
corti.
In
quell'epoca i calzoni di Pippo — così lo chiamavano gli amici — erano
sempre troppo corti. Egli cresceva vertiginosamente. Il sarto non aveva
ancor finito di confezionargli un abito che già le misure non andavano
più bene. Solo alcuni anni più tardi Pippo finì di crescere — grazie al
cielo ! — e i suoi calzoni non furono più troppo corti; ma il viso
conservò sempre il sorriso ingenuo di una volta.
Cercammo
di far comprendere a « Leo Cervisio » tutti i pericoli a cui si
esponeva — nelle sue condizioni giuridiche — col partecipare ad una
lotta che diventava di giorno in giorno più aspra. Non ci fu verso di
dissuaderlo. Volle restare ad ogni costo in quel roveto ardente,
esponendosi più di ogni altro, con quella sua tranquilla ed ilare
strafottenza che ce lo rendeva ogni giorno più caro. La polizia, del
resto, non sospettò mai che « Leo Cervisio » fosse il condannato Filippo
Corridoni. Arrestato più volte, fu sempre rilasciato senza che i
funzionari della questura dubitassero di aver nelle mani un così
terribile delinquente.
Il
20 giugno 1908, quando, per ordine di Giolitti, fu dato l'assalto alla
Camera del Lavoro di Parma, egli era sulla strada a difenderla. Un
ufficiale di cavalleria, che caricava la folla alla testa di un plotone,
gli puntò contro la rivoltella gridandogli : — Va via, o sparo !
« Leo Cervisio » non si mosse. Solo e disarmato, rispose offrendo il petto: — Spara dunque, vigliacco!
L'ufficiale
— che non era certo un vigliacco — stupito di una così eroica audacia,
non sparò. Frattanto sopravvenne una squadra di giovinotti che
respinsero il plotone con un nugolo di sassi e trascinarono seco il
temerario compagno, salvandolo attraverso i vicoli dell'Oltretorrente,
il noto quartiere proletario e sovversivo di Parma, che doveva poi
offrire alla guerra numerosi volontari.
La
sera stessa Corridoni si trovava con me in uno stanzone sotterraneo di
Borgo dei Grassani. C'erano anche alcuni altri, indotti a rifugiarsi là
dalla caccia che la polizia dava a tutti i sospetti di partecipare alla
dirigenza dello sciopero, che si voleva stroncare ad ogni costo. Per le
strade di Parma infuriava la violenza statale: raffiche di fucileria e
di mandati d'arresto. Nessuno poteva esser sicuro di non prendersi una
palla nello stomaco o di non venire acciuffato come componente
dell'associazione a delinquere, inventata dalla fervida fantasia dei
funzionari di pubblica sicurezza, per avere il pretesto legale di
operare arresti in massa. Il giorno dopo — avuta la sicurezza che il
mandato di cattura esisteva solo per me — i miei compagni uscirono dal
rifugio. Con loro uscì pure « Leo Cervisio » che restò sulla breccia,
nella provincia percossa dalla più dura reazione, per un mese ancora,
finche la denunzia ipocrita di un furfante travestito da socialista non
lo costrinse a ripigliare la via dell'esilio, sulla quale io già mi
trovavo. Venne a salutarmi a Lugano, di passaggio; ed un paio di mesi pù
tardi lo ritrovai a Zurigo. Era un ottobre triste ed umido. Corridoni
viveva facendo il manovale di muratore. Sfinito dalla fatica,
malaticcio, costretto alla miseria più dura, coi calzoni più corti che
mai, rideva pur sempre del suo bel riso sereno e negli occhi gli luceva
la fede sicura, ardente, gioiosa, come nei momenti più belli delle lotte
che avevamo combattuto insieme.
PAGINE AUTOBIOGRAFICHE
La
biografia di Corridoni è stata tracciata da lui stesso, in una lettera
indirizzata a persona cara, poco prima della sua morte sul campo. Nulla è
più commovente delle pagine semplici e schiette del documento che ho
sott'occhio e che riporto integralmente:
«Ho
ventotto anni non ancora compiuti. I miei genitori sono operai ed ora
vivono in una discreta agiatezza, frutto del loro costante lavoro. Ho
frequentato una scuola industriale superiore, da dove sono uscito col
diploma di perito meccanico. Venni a Milano nel 1905 e vi esercitai fino
al 1907 la professione di disegnatore e tracciatore di macchine. Di
idealità repubblicane fin dalla prima fanciullezza, divenni socialista
rivoluzionario fin dai primi mesi di mia permanenza in questa città.
Entrai nella milizia sovversiva nella primavera del 1906 ed il mio
ardore giovanile ed una certa vivacità di intelletto mi condussero
subito nelle prime file.
«Nel
gennaio del 1907 ero Segretario del Circolo Giovanile Socialista; a
marzo fondatore del «Rompete le File» insieme a Maria Rigier.
Nell'aprile successivo ero Vice Segretario della Federazione Provinciale
Socialista. Allora ero puro di anima e di sensi; non amavo le donne ;
non il vino, non la carne. Guadagnavo bene e spendevo pochissimo, in
modo da poter disporre della maggior
parte
del mio stipendio per le mie idee. Ma incominciò subito contro di me
una feroce implacabile persecuzione poliziesca, che si è arrestata alle
soglie della caserma, e che probabilmente proseguirà quando avrò
svestita la divisa di soldato, se gli.... austriaci non vi porranno
rimedio.
«Ebbi
nel maggio 1907 la mia prima condanna : e da allora ne ho dovute
registrare ben trenta. Per otto anni consecutivi la mia vita è stata
asprissima, terribile. Ho fatto ininterrottamente la spola fra una
prigione e l'altra, con qualche puntata in esilio.
«Ho
sofferto, e tanto, ma ho il supremo orgoglio di poter attestare innanzi
all'universo, e senza tema di smentite, che le giornate del dolore sono
state da me sopportate con coraggio e fermezza di animo, senza che
nessuno possa buttarmi in faccia un istante di debolezza o di viltà.
«Ho
patito fame, freddo, dileggi, vituperi, mortificazioni, senza mostrare
ad alcuno i miei patimenti. Ho fatto tutti i mestieri, nell'esilio dolo
oso, dal manovale di muratore al venditore di castagne. Ho vissuto dei
mesi con semplice pane e ricotta romana, ovvero con un piatto di
spaghetti da quattro soldi, mangiato una sola volta al giorno. Ebbene,
malgrado ciò, eccomi qua con la mia fede intatta, pronto ad infilare
ancora una volta la via crucis per il trionfo delle mie idee immortali.
«In
questi otto anni ho portato la mia parola da un canto all'altro
d'Italia; dappertutto mi sono fatto degli amici; forse anche degli
avversari: nemici, no. Nemici no, perché (e non è una virtù) la mia
anima è incapace di odiare. Ovvero io odio il male in se stesso e non
nelle persone che lo compiono. E se combatto un avversario, anche con
asprezza e rudezza, lo faccio per guarirlo dal suo male morale, e non
per il gusto di vederlo avvilito e vinto. Al di là della mia penna
affilata quanto una spada, vi son sempre le mie braccia aperte pronte a
stringere l'avversario che si pente e si ricrede.
«Le
mie idee non mi procurano che prigione e povertà; ma se la prigione mi
tempra per le battaglie dell'avvenire, se la prigione mi nutrisce
l'anima e l'intelletto, la povertà mi riempie di orgoglio. Se avessi
avuto anima da speculatore o se avessi per un solo attimo transatto con
la mia coscienza ora avrei una posizione economica invidiabile; ma
siccome io so, sento che un soldo illecitamente guadagnato costituirebbe
per me un rimorso mortale e mi abbasserebbe talmente dinanzi a me
stesso da uccidermi spiritualmente, così posso tranquillamente prevedere
che la povertà sarà la compagna indivisibile della mia non lunga vita.
«I
miei avversari da dieci anni a questa parte hanno avuto modo di far
circolare sul mio conto ogni sorta di voci calunniose ed hanno intessuto
maldicenze idiote. Io non ho mai sentito il bisogno di raccogliere
tanto fango, che la verità s'è fatta sempre strada naturalmente ed i
galantuomini han fatto per proprio conto giustizia sommaria di certe
bassezze. Ho anch'io i miei difetti — chi non ne ha ? — ma gli sforzi
che da tanti anni compio per detergere l'anima mia da ogni impurità e
per rendermi degno della missione che il destino mi ha affidato, hanno
raggiunto il risultato di far di me un uomo che può andare in giro per
il mondo senza correre il pericolo di arrossire e chinare la fronte
dinanzi a chicchessia».
IL CONCETTO DELLA VITA
In
un'altra lettera, pure scritta dal fronte, tornava a ripetere il
concetto morale cui aveva sempre ispirato la sua vita con queste parole:
«Ho
amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più
della vita. «Le ho servite sempre ardentemente, devotamente,
poveramente. Che anche la povertà ho amato, come San Francesco d'Assisi e
Fra Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore
ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario.
«Ho
cercato sempre di adattare la mia vita ai dettami morali della mia
dottrina: pur non essendovi riuscito, che la carne è fragile, ho
l'orgoglio di asserire che il mio sforzo è stato sincero e costante.
«Se
il destino lo vorrà, morirò senza odiare nessuno — neanche gli
austriaci -— e con un gran rimpianto: quello di non aver potuto dare
tutta la somma delle mie energie, che sento ancora racchiuse in me, alla
causa dei lavoratori; con una grande soddisfazione: di aver sempre
obbedito ai voleri della mia coscienza».
Tanto
basta —cred'io —per delineare la figura spirituale del rivoluzionario
che si fece volontario della Patria nell'ora del pericolo.
La
figura fisica di Filippo Corridoni non contrastava con la figura
spirituale. Alto, snello, biondo, con grandi occhi chiari dolcissimi,
roseo e sorridente anche nei momenti più tristi e tragici, egli
esercitava un fascino singolare sulle persone che l'avvicinavano, come
sulle folle che guidava alle più aspre battaglie, elevandole con
l'esempio alla comprensione della bellezza ideale del sacrifizio che non
chiede premio.
Persone
e folle intuivano in lui una sincerità assoluta, una nobiltà d'anima
senza ombre ne incrinature, un delicatissimo sentimento umano che
l'esperienza amara non riusciva a diminuire; come le durezze di una vita
di miseria e di dolori non riuscivano a vincere la freschezza giovanile
del suo fisico, sul quale neppure le malattie sembravano aver potenza
di lasciare tracce.
Alceste de Ambris - 1922
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