sabato 15 aprile 2023

I media e Big Pharma hanno gli stessi proprietari

 


un articolo di capitale importanza del  dottor Joseph Mercola

La storia in breve:

  • Big Pharma e i media mainstream sono in gran parte di proprietà di due società di gestione patrimoniale: BlackRock e Vanguard.
  • Le aziende farmaceutiche sono all’origine le reazioni al COVID-19 – che hanno messo in pericolo la salute pubblica invece di migliorarla – e i media mainstream sono stati complici nella diffusione della loro propaganda, una falsa narrativa ufficiale che fuorvia il pubblico e alimenta una paura basata sulle bugie.
  • Vanguard e BlackRock sono i due principali proprietari-azionisti  di Time Warner, Comcast, Disney e News Corp, quattro delle sei società di media che controllano oltre il 90% del panorama dei media statunitensi.
  • BlackRock e Vanguard sono un monopolio segreto che possie4de  praticamente tutto ciò che ti può venire in mente. In totale, possiedono partecipazioni in 1.600 società statunitensi, con un fatturato combinato di $ 9.100 miliardi nel 2015. Aggiungendo il terzo proprietario più grande al mondo, State Street, la loro proprietà combinata comprende quasi il 90% di tutte le società nell’S&P 500.
  • Vanguard è il maggiore azionista di BlackRock. La stessa Vanguard, d’altra parte, ha una struttura unica nel suo genere che rende la sua proprietà più difficile da identificare;  molte delle famiglie più antiche e ricche del mondo possono essere collegate ai fondi Vanguard

“Le azioni delle più grandi società del mondo sono di proprietà degli stessi investitori istituzionali. Si possiedono tutti l’un l’altro. Ciò significa ad  esempio che i marchi “concorrenti”, come Coca Cola e Pepsi, non sono affatto concorrenti, dal momento che le loro azioni sono di proprietà delle stesse società di investimento, fondi di investimento, compagnie assicurative, banche e, in alcuni casi, governi.

 

Gli investitori più piccoli sono di proprietà di investitori più grandi. Questi sono di proprietà di investitori ancora più grandi. La parte superiore visibile di questa piramide mostra solo due società i cui nomi abbiamo visto spesso … Sono Vanguard e BlackRock.

Non solo possiedono gran parte delle azioni di quasi tutte le grandi società, ma anche le azioni degli investitori in quelle società. Questo dà loro un monopolio completo.

“L’élite che possiede Vanguard non ama essere sotto i riflettori… I rapporti di Oxfam e Bloomberg dicono che l’1% del mondo, insieme, possiede più soldi dell’altro 99%. Ancora peggio, Oxfam afferma che l’82% di tutti i soldi guadagnati nel 2017 è andato a questo 1%.

In altre parole, queste due società di investimento, Vanguard e BlackRock, detengono il monopolio in tutti i settori del mondo e, a loro volta, sono di proprietà delle famiglie più ricche del mondo, alcune delle quali sono reali e molto ricche da prima della Rivoluzione industriale.”

Mentre ci vorrebbe   parecchio  tempo per setacciare tutti i fondi di Vanguard per identificare i singoli azionisti, e quindi i proprietari di Vanguard, un rapido sguardo-see suggerisce che Rothschild Investment Corp. 8 e Edmond De Rothschild Holding sono due di questi stakeholder. 9 Nome che apparirà di nuovo in seguito. Altri nomi identificati comprendono   anche la famiglia italiana Orsini, la famiglia americana Bush, la famiglia reale britannica, la famiglia du Pont, i Morgan, i Vanderbilt e i Rockefeller, come proprietari di Vanguard.



BlackRock/Vanguard possiede Big Pharma

Nel febbraio 2020, BlackRock e Vanguard  risultano i due maggiori azionisti di GlaxoSmithKline, rispettivamente con il 7% e il 3,5% delle azioni. 10 In Pfizer, la proprietà è invertita, con Vanguard come investitore principale e BlackRock come secondo azionista. 11

 

I  dieci primi proprietari di Pfizer. La proprietà diffusa delle azioni (coriandolizzazione) rende possibile avere il pacchetto di controllo delle SpA con solo il 7-8% delle azioni.

 

BlackRock/Vanguard possiede i media

Per quanto riguarda il New York Times, a maggio 2021 BlackRock  risulta  il secondo azionista più grande con il 7,43% delle azioni totali, subito dopo The Vanguard Group, che detiene la quota maggiore (8,11%). 13 , 14

 


Blackrock e Vanguardia controllano i media

 

Oltre al New York Times, Vanguard e BlackRock sono anche i due principali proprietari di Time Warner, Comcast, Disney e News Corp, quattro delle sei società di media che controllano oltre il 90% del panorama dei media statunitensi. 15 , 16

Inutile dire che se hai il controllo di così tante testate giornalistiche, puoi controllare intere nazioni attraverso una propaganda centralizzata accuratamente orchestrata e organizzata travestita da giornalismo .

Tuttavia, il messaggio chiave da portare a coscienza è che due BlackRock e Vanguard, con le loro partecipazioni incrociate,  formano un monopolio occulto sui beni patrimoniali globali .

Considerando che BlackRock nel 2018 ha annunciato di avere “aspettative sociali” dalle aziende in cui investe, 17 il suo potenziale ruolo di hub centrale nel Great Reset e il piano di “build back better” non  va  trascurato.


 

Un monopolio occulto di “famiglie” nell’ombra

Inoltre e “minano la concorrenza attraverso il possesso di azioni in società concorrenti” e “offuscano  i confini tra capitale privato e affari governativi lavorando a stretto contatto con i regolatori”, e sarebbe difficile non vedere come BlackRock/Vanguard e il loro globalista i proprietari potrebbero essere in grado di facilitare il Grande Reset e la cosiddetta rivoluzione “verde”, entrambi parte dello stesso schema di furto di ricchezza.

È importante sottolineare che BlackRock lavora anche a stretto contatto con le banche centrali di tutto il mondo, inclusa la Federal Reserve degli Stati Uniti, che è un’entità privata, non federale. 18 , 19 Presta denaro alla banca centrale, funge da consulente per essa e sviluppa il software della banca centrale. 20

In tutto, BlackRock e Vanguard hanno la proprietà di circa 1.600 aziende americane, che nel 2015 hanno registrato un fatturato di 9,1 trilioni di dollari. Quando si aggiunge il terzo proprietario globale, State Street, la loro proprietà combinata comprende quasi il 90% di tutte le società S&P 500  quotate a Wall Street

BlackRock/Vanguard possiede anche azioni di una lunga lista di altre società, tra cui Microsoft, Apple, Amazon, Facebook e Alphabet Inc. 21 –   quasi impossibile elencarli tutti.

 

Come collegare BlackRock/Vanguard – e le famiglie globaliste che li possiedono – al Grande Reset? Dobbiamo esaminare le relazioni tra queste gigantesche società di proprietà dei globalisti e considerare l’influenza che possono esercitare attraverso tali relazioni. Come notato da Lew Rockwell: 24

“Quando Lynn Forester de Rothschild vuole che gli Stati Uniti siano un paese a partito unico (come la Cina) e non vuole che le leggi sull’identificazione degli elettori vengano approvate negli Stati Uniti, in modo che possano essere perpetrate più frodi elettorali per raggiungere questo scopo, cosa fa? fare?

Tiene una teleconferenza con i migliori 100 amministratori delegati del mondo e dice loro di denunciare pubblicamente come  l’approvazione di una legge anticorruzione da parte della Georgia e ordina ai suoi devoti amministratori delegati di boicottare lo Stato della Georgia, come abbiamo visto con Coca-Cola e la Major League Baseball e persino la star di Hollywood, Will Smith.

In questa teleconferenza, vediamo le sfumature del Grande Reset, dell’Agenda 2030, del Nuovo Ordine Mondiale. Le Nazioni Unite vogliono assicurarsi, così come [il fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum Klaus] Schwab, che nel 2030 povertà, fame, inquinamento e malattie non affliggeranno più la Terra.


 

 JACOB ROTHSCHILD

 

Per raggiungere questo obiettivo, l’ONU vuole che le tasse dei paesi occidentali siano divise dalle mega corporazioni dell’élite per creare una società completamente nuova. Per questo progetto, l’ONU afferma che abbiamo bisogno di un governo mondiale, ovvero l’ONU stessa….  sembra abbastanza chiaro che la pandemia di COVID-19 sia stata orchestrata per provocare questo Nuovo Ordine Mondiale – il Grande Reset – e il video di 45 minuti presente all’inizio dell’articolo fa un buon lavoro di spiegando come è stato fatto. E al centro di tutto, il “cuore” verso cui confluiscono tutti i flussi di ricchezza globale, troviamo BlackRock e Vanguard.

 

 Fonte

 

 



La disidencia falangista y el «grupo de Burgos» (di José Alsina Calvés)

 


Sobre la supuesta oposición falangista al régimen de Franco

Desde los finales del franquismo y los inicios de la transición, diversos grupos falangistas han reivindicado una supuesta oposición falangista al régimen de Franco, que enlazaría con la figura de Hedilla (condenado a muerte y después indultado por oponerse al decreto de unificación) y que culminaría con la creación del partido Falange Española Auténtica, que se reclamaba demócrata y antifranquista.

Resulta chocante que en la literatura y los escritos producidos por estos sectores falangistas «disidentes» no se den practicante referencias del «grupo de Burgos», personalidades falangistas que se reúnen en esta ciudad castellana bajo el liderazgo incuestionable de Dionisio Ridruejo, aun no terminada la guerra civil. El grupo de Burgos no solamente agrupa a las personalidades intelectuales más brillantes de falange (poetas como Ridruejo, Rosales o Vivanco; intelectuales como Laín o Tovar; novelistas como Torrente Ballester), sino que algunos de sus miembros protagonizarán enfrentamientos directos o indirectos con el propio Franco (carta de Ridruejo a la vuelta de Rusia; incidentes en la Universidad de Madrid en 1956) mucho antes que la «oposición democrática» soñara siquiera en hacer algo parecido.

Ahora que corren vientos favorables a la «recuperación de la memoria histórica» pienso que sería bueno «recuperar» históricamente al grupo de Burgos. Hay un pequeño problema: a pesar de la evolución posterior (muy posterior) de muchos de sus miembros hacia otras posiciones políticas, los miembros del grupo de Burgos eran inequívocamente fascistas. Que los primeros opositores a Franco fueran fascistas no encaja demasiado con los estándares de la corrección política, para los cuales la palabra fascista ha dejado de ser la palabra que designa una ideología (o un conjunto de ideologías) que aparecieron en la Europa de entreguerras, para convertirse en un insulto (más que un insulto, una descalificación ritual), que puede aplicarse a grupos o personas absolutamente dispares (Franco, Sadan Hussein, Aznar, Pinochet, la ETA, &c.).

La «recuperación» de la historia trae sorpresas.

Formación del grupo de Burgos

Los antecedentes del grupo de Burgos hay que buscarlos en la revista Jerarquía, editada en Pamplona por el sacerdote Fermín Yzurdiaga, delegado nacional de prensa y propaganda de Falange. En esta revista, de la cual se editaron solamente cuatro números, encontramos diversos colaboradores, muchos de los cuales veremos poco después en el grupo de Burgos: Pedro Laín, Torrente Ballester, Ángel María Pascual, Luis Felipe Vivanco, Luis Rosales, Rafael García Serrano, sin olvidar a Eugenio D'Ors.

El 9 de marzo de 1938, ya constituido el primer gobierno de Franco, y gracias al apoyo de Serrano Suñer, Dionisio Ridruejo tomó posesión del Servicio Nacional de Propaganda y se instaló en Burgos. En torno a Ridruejo, líder indiscutible del grupo, se agrupan personajes que ya habían estado en la redacción de Jerarquía, tales como Laín, Torrente, Vivanco, Rosales{1}, y nuevas incorporaciones como el grupo de catalanes que editaban en Burgos el semanario Destino, Ignacio Agustí, José Vergés, Javier de Salas y Juan Ramón Masoliver.

El grupo de Burgos se consolida rápidamente, tanto desde el punto de vista ideológico y político, como en el personal (allí se fraguan amistades que durarán toda la vida). Como grupo que aspira a ser «clase política dirigente» del Nuevo Estado se caracteriza por una ideología, una estrategia y una táctica.

La ideología del grupo es el nacional-sindicalismo radical{2}. En este sentido el autentico intelectual orgánico del grupo es Pedro Laín Entralgo{3}, que desarrolla sus tesis en tres obras fundamentales: Los valores morales del nacional sindicalismo; La generación del 98 y España como problema. El discurso ideológico de Laín arranca de las tesis históricas desarrolladas por Ramiro Ledesma en su Discurso a las Juventudes de España: más que de una «decadencia» hay que hablar de una derrota de España. En el siglo XVII España fue derrotada, no por Europa, sino por la Reforma Protestante y por Inglaterra. Como consecuencia de esta derrota España se encerró en si misma, y la modernidad se construyó a sus espaldas.

En el siglo XIX, cuando las grandes naciones europeas (Francia, Alemania) construían sus Estados Nacionales, España está inmersa en una «pugna estéril, entre los tradicionalistas que no saben ser actuales, y los liberales que no quieren ser españoles». Ya en el siglo XX España aparece desgarrada por una triple división: la de los partidos, la de las clases sociales y la de los territorios. A todo ello hay que añadir la amenaza de la revolución comunista, que para los falangistas era «justa en sus orígenes», pero desviada por su ideología y su trayectoria.

España es, pues, un problema. La simple victoria militar no es la solución, sino únicamente una premisa o condición para que la solución pueda ensayarse{4}. La solución en la revolución que propugna la falange y la construcción del Estado Nacional Sindicalista. Este estado realizará la misión de integrar a todos los españoles en el terreno nacional, social y cultural.

En el terreno nacional por la creación de mecanismos de participación, movilización y encuadramiento alternativos a la democracia liberal, y con una especial atención a territorios, como Cataluña, donde el separatismo estaba (y está) más arraigado. A la simple represión Laín opone la formula orteguiana del «proyecto sugestivo de vida en común».

En el terreno social el proyecto falangista radical propone la creación de una potente organización sindical que, de hecho, dirija la vida económica del país. Esta idea de los social no tiene nada que ver con la simple idea de «asistencia social» («caridad» en versión cristiana, o «solidaridad» en versión progre). De hecho no es una idea «social» sino «política», que, de haberse realizado, habría sido auténticamente revolucionaria{5}.

En el terreno cultural se propone la integración en una «cultura nacional» de todos los autores, escritores, poetas y artistas que de una manera o de otra, y vengan del bando que vengan, hayan «sentido» a España. Menéndez Pelayo y la generación del 98 (así como Ortega y Gasset) son las líneas fundamentales de este proyecto, y la «recuperación» del poeta republicano Antonio Machado{6} una de las metas más acariciadas. El proyecto cultural del grupo se concretaría en la revista Escorial.

Este proyecto político, que responde al «problema» de España, tiene proyección Europea. La síntesis nacional que la falange representa en España se está produciendo también en otros países Europeos, aunque con otras peculiaridades. En abstracto sería la síntesis entre lo nacional y lo social.

Para Laín la «moral nacional» se expresó por primera vez en la historia en la batalla de Valmy, en el grito francés de ¡vive la nation! Hay aquí una lectura positiva de algunos aspectos de la Revolución Francesa. La «moral del trabajo», que sería el otro polo dialéctico de esta síntesis hay que buscarla en los distintos movimientos socialistas. A la síntesis Laín le da el nombre genérico de «Estado nacional-proletario». En otras palabras, el proyecto falangista radical es la versión española de un movimiento que se está dando en toda Europa: el fascismo.

La estrategia política del grupo de Burgos, al menos en esta primera etapa, se vincula a la trayectoria política de Ramón Serrano Suñer, cuñado de Franco, y personaje de gran influencia en este primer franquismo. La estrategia política de Serrano, y por tanto del grupo de Burgos, se fundamentaba en los siguientes proyectos:

·La entrada de España en la segunda guerra mundial junto a las potencias del Eje. La guerra aceleraría la «falangización» del Estado, y la victoria del Eje aseguraría su proyección internacional en la «Nueva Europa». En esta línea hay que interpretar el famoso discurso de Serrano Rusia es culpable. El proyecto fracaso. Franco prefirió la solución de la «División Azul». Por una parte se quitó de encima a los falangistas más radicales; por otra se mantenía en una posición ambigua, que le permitiría sobrevivir ganara quién ganara la guerra.

·Construir la arquitectura del «Nuevo Estado» según el modelo fascista: partido único que controle al gobierno (FET y de las JONS) y una poderosa organización sindical (dirigida por falangistas) que controle la economía. Este proyecto también fracasa. Ridruejo se enfrentó duramente en dos ocasiones a Pedro Sainz Rodríguez, ministro de educación y principal representante intelectual del grupo de Acción Española. La primera vez fue en la redacción del «Fuero del Trabajo». Ante las propuestas de Ridruejo, Sainz Rodríguez le espetó «pero eso es la revolución»; el poeta soriano le contestó «naturalmente, no se trata de otra cosa». La segunda ocasión fue cuando se discutían el borrador de los nuevos estatutos de FET y de las JONS: en esta ocasión intervino el propio Franco desautorizando de Ridruejo.

·En el terreno sindical fue importante la ofensiva desarrollada por Gerardo Salvador Merino, Delegado Nacional de Sindicatos desde septiembre de 1939, camisa vieja y muy próximo a Serrano y Ridruejo. Para Salvador el aparato sindical debía tener la supremacía en el orden económico, así como el «partido» debía tenerla en el político. La creciente capacidad de encuadramiento y movilización de masas por parte de la central nacional-sindicalista eran vistas con desconfianza desde otros sectores del régimen, especialmente los militares, que acabaron bloqueando el proyecto.

En términos generales la estrategia política de Serrano y del grupo de Burgos para el control del Nuevo Estado fue un fracaso, incluso antes de la derrota del Eje en la segunda guerra mundial, lo que no significa que durante unos años no ocuparan parcelas importantes de poder.

Su principal táctica de actuación en estos años fue incidir en los aspectos estéticos y de propaganda, con la idea, equivocada, de que una fascistización exterior del régimen acabaría produciendo de manera automática, una fascistización interior. Olvidaron la distinción que Ramiro Ledesma había establecido en su libro ¿Fascismo en España?, entre «fascista» y «fascistizado».

Pero incluso en este terreno tuvieron sus limitaciones. A Franco le convenían algunos aspectos de la fascistización (mientras había esperanza de la victoria del Eje), pero no otros. Las concentraciones de masas, las grandes escenografías, la exaltación de su caudillaje no solo eran permitidas, sino alentadas. La campaña de propaganda que Ridruejo había preparado para Cataluña, en catalán, en que se insistía en la «liberación» y, sobretodo, la dirigida a los sectores obreros de la capital catalana, para atraerlos al nacional-sindicalismo, fue bloqueada por orden del general Eliseo Álvarez Arenas, jefe de los Servicios de Ocupación.

El primer intentó de acción política del grupo de Burgos para la «conquista del estado» fue un fracaso. La derrota del Eje y la caída política de Serrano Suñer desactivó al grupo. En la década de los 50, y bajo la protección del ministro de Educación Joaquín Ruiz Giménez el grupo de Burgos volverá a tener protagonismo. La estrategia y la táctica serán diferentes, pero la ideología será la misma. Pero mientras ha ocurrido un suceso importante: la rotura de Ridruejo con Franco.

Ridruejo contra Franco

El día 4 de agosto de 1941 Ridruejo participó en una emisión de Radio Berlín, en la que justifica la participación española en la guerra; después partió para el frente. Se ha especulado mucho sobre la influencia de la guerra en Ridruejo, sobre sus motivaciones personales, sobre su «complejo» por haber pasado la guerra civil en la retaguardia, sobre el reflejo de la guerra en su obra poética (cuadernos de Rusia). Se ha hecho comparaciones con Jünger (Tempestades de acero). Pero hay un mito absolutamente falso a refutar: el Ridruejo que se va a Rusia siendo fascista y vuelve «demócrata».

Los defensores de este mito tienen un argumento «incontestable»: al regresar de Rusia Ridruejo se enfrentó a Franco, luego regresó convertido a «demócrata» y «pacifista». La realidad es justamente al revés: Ridruejo regresó más convencido que nunca de sus ideales nacional–sindicalistas. Al comprobar el divorcio entre estos ideales y la realidad del régimen es cuando decide romper con el mismo.

En mayo de 1942, poco después de su regreso de Rusia, Ridruejo fue recibido por Franco. En esta entrevista se mostró bastante crítico con la situación, especialmente con lo que él consideraba una corrupción rampante, visible por todas partes. A principios de verano Ridruejo se entrevisto con Arrese, a la sazón secretario general de FET y de las JONS, y buen representante de la posición oportunista. Absolutamente decepcionado por estas entrevistas, Ridruejo decidió romper con el régimen.

El 7 de julio de 1942 Ridruejo envió a Franco una carta de una valentía poco usual. Es difícil imaginar que el general a lo largo de su trayectoria como Jefe de Estado recibiera otra carta de una crudeza tan franca. El contenido de la carta era tan duro que la decisión de distanciarse de los estamentos oficiales del régimen que en ella se manifestaban no podían tener ya marcha atrás. Destaquemos algunos párrafos:

Todo parece indicar que el Régimen se hunde como empresa, aunque se sostenga como «tinglado»[...] ¿Piensa V.E. que desgracia mayor podría yo tener, por ejemplo, que la de ser fusilado en el mismo muro que el General Várela, el Coronel Galarza, D. Esteban Bilbao o el Sr. Ibáñez Martín? No se trata de no morir. Pero ¡Por Dios¡ no morir confundido con lo que se detesta [...] Esto no es la Falange que quisimos ni la España que necesitamos.

No todos los miembros del grupo de Burgos tuvieron el valor de Ridruejo. Tovar y Laín, por ejemplo, se retiraron discretamente a sus cátedras universitarias en espera de mejores tiempos. Ridruejo, que no tenía otra profesión que la de poeta, y que ni siquiera había terminado sus estudios de derecho, al dejar todos sus cargos oficiales, quedo en una posición personal precaria.

El 16 de agosto del mismo año tuvieron lugar los «sucesos de Begoña». En un acto celebrado en el santuario de la Virgen de Begoña (Vizcaya) se produjeron incidentes entre falangistas y requetés. El inspector nacional del SEU, Juan Domingo Muñoz, acusado de haber arrojado una granada, y de ser «agente de los ingleses» fue condenado a muerte, y la sentencia se cumplió a pesar de las intensas gestiones que numerosos dirigentes falangistas realizaron ante Franco para que la pena fuera conmutada{7}.

El resultado de la crisis fue el abandono definitivo de la política por parte de Serrano Suñer. Dionisio Ridruejo, aunque no había tenido nada que ver con todo este asunto, fue detenido y confinado, primero en Ronda y después en Cataluña. Ridruejo puede ya considerarse un «antifranquista», pero sigue siendo falangista. Por estas fechas escribió a Serrano: de la Falange esencial no me voy.

Años 50: el grupo de Burgos vuelve a la carga

En julio de 1951 Franco realiza un amplio cambio gubernamental, dando entrada a Joaquín Ruiz Jiménez en el Ministerio de Educación Nacional, cargo que hasta el momento había estado siempre copado por hombres vinculados a Acción Española y/o a su continuación natural, el Opus Dei. Como señala Morente{8} este personaje es normalmente identificado como «católico», pero esto no es decir nada (todos los miembros del grupo de Burgos eran católicos). Ruiz Jiménez era falangista, y no tenía ninguna conexión con el Opus Dei ni había estado vinculado a Acción Española.

Bajo el paraguas de Ruiz Jiménez (como antes fue el de Serrano) los miembros del grupo de Burgos darán su última batalla para reorientar al régimen desde dentro. La ideología del grupo sigue siendo el falangismo radical, cada vez más alejado del «falangismo oficial». La estrategia y la táctica van a ser muy diferentes. El objetivo ya no es la ocupación del estado, sino la agitación cultural y universitaria, el entrismo en las instituciones educativas, y el intentar ponerse al frente de una larvada agitación universitaria que ya se adivinaba. En definitiva, un programa gramscista que, años más tarde, llevarían a cabo los comunistas con notable éxito.

Ruiz Giménez ofreció a Laín la subsecretaria del Ministerio, que este rechazó, pero aceptó el cargo de rector de la Universidad Complutense de Madrid. Antonio Tovar (otro miembro del grupo de Burgos) se hizo cargo del rectorado de la Universidad de Salamanca. Otros cargos de importancia del Ministerio fueron ocupados por falangistas próximos a los  planteamientos del grupo de Burgos. Ridruejo no ocupó ningún cargo, pero aprovechando las tribunas que su condición de notable periodista y escritor se le ofrecían, saltó una y otra vez a la palestra para batirse en defensa de la política que se venía impulsando desde el Ministerio por sus amigos Laín y Tovar.

¿Quiénes eran los principales adversarios del proyecto Ruiz Giménez? Los herederos del catolicismo integrista de Acción Española, que ahora formaban en una generación intelectual agrupada en torno al Opus Dei, y que tenían a Rafael Calvo Serer{9} y a Florentino Pérez Embid como máximos referentes intelectuales.

La batalla política tuvo su proyección intelectual. A la publicación de la obra de Laín España como problema en 1948, contestó Calvo Serer con España sin problema en 1949, título que ya por si mismo era una bofetada hacia Laín{10}.

Durante algunos años la labor cultural, política e ideológica del grupo fue continua, desde tribunas muy variadas. En el ámbito universitario los candidatos falangistas procedentes del SEU comenzaron a ganar cátedras con una proporción que hasta entonces no se había dado. Ello coincidía con una frenética actividad de las revistas universitarias falangistas, donde hacían sus primeras armas una nueva generación de jóvenes militantes que dejaban ver el creciente descontento de los que habían sido socializados en la idea de una revolución nacional que no veían plasmarse por ningún lado.

A otro nivel hay que citar la aprobación en 1953 de la Ley de Ordenación de la Enseñanza Media, que mejoraba sustancialmente la ley de bachillerato de 1938. Se pretendía aumentar el control del Estado sobre la enseñanza privada (que por aquel entonces era toda religiosa). La ley tuvo la oposición frontal de los opusdeistas, con el apoyo de la jerarquía eclesiástica, y significo un importante desgaste político para Ruiz Jiménez.

La vida universitaria se caracterizó en este periodo por una creciente efervescencia política. Una causa de fondo del creciente descontento de los estudiantes era el cada vez mayor paro académico, es decir, las dificultades de los licenciados para conseguir trabajo, consecuencia, en parte, de una Administración bloqueada en la década anterior por todos aquellos que aduciendo méritos de guerra (reales o ficticios) se habían apoderado de cargos y puestos de trabajo en todos los niveles de aquella.

Otro factor que impulso la agitación estudiantil fue la propia actitud del SEU. Para recuperar terreno en Sindicato potenció su actividad asistencial, al tiempo que daba a sus revistas y publicaciones un tono más crítico y combativo, siempre desde la perspectiva del nacional-sindicalismo radical, y con el apoyo decidido de rectores como Laín o Tovar.

El ambiente se calentó de forma notable en enero de 1954, cuando el SEU convocó una manifestación estudiantil para protestar contra la visita de la Reina de Inglaterra a Gibraltar. La manifestación fue disuelta de forma violenta por la policía. Los estudiantes se indignaron contra la dirección del SEU que los había convocado. El dirigente del SEU, Jordana de Pozas, tuvo que ser rescatado de una asamblea universitaria por el propio Laín Entralgo, cuando los seuisatas habían perdido completamente en control de la situación.

Laín pactó con el ministro de la Gobernación, Blas Pérez, que la policía no entrara en la Universidad, y logró pacificar la situación con una intervención personal en una asamblea en la que participaron entre dos y tres mil estudiantes, aunque con cierta merma de su prestigio entre la masa estudiantil. Mientras está apareciendo otro protagonista colectivo: el primer núcleo de activistas comunistas, formado por Javier Pradera, Enrique Múgica, Ramón Tamames y Fernando Sánchez-Dragó{11}. Estos activistas trabajaran para poner a los estudiantes contra el SEU y para desbordar la situación y que los falangistas pierdan el control de la misma.

El detonante final de la crisis política se produjo con la prohibición, por parte de las autoridades, del Congreso de Escritores Jóvenes, cuyos hilos movían los falangistas y que contaba con el apoyo explícito de Ridruejo. El núcleo comunista aprovechó el descontento para proponer la convocatoria de un Congreso Nacional de Estudiantes, que se convirtiera en el único órgano legítimo de representación estudiantil.

A partir de aquí aparece un nuevo actor, la «falange» oficial, es decir, la vinculada a la estructura del Movimiento. El día 7 de febrero un grupo uniformado de la Centuria 20 de la Guardia de Franco interrumpe violentamente las elecciones de representantes estudiantiles de la facultad de Derecho. El día 8 se repiten los incidentes. Parece ser que muchos de los que participan en el asalto no eran estudiantes, y en el curso del mismo es agredido el decano de la facultad, el falangista Manuel Torres López. Los estudiantes responden destrozando el local del SEU.

Estas actuaciones son desastrosas para la estrategia del grupo de Burgos. El movimiento estudiantil se les escapa completamente de las manos. Por si fuera poco el día 9 de febrero se producen enfrentamientos en la calle, y muere de un disparo Miguel Ángel Álvarez Pérez, de diecinueve años, miembro de la Centuria «Álvarez de Sotomayor» de las Falanges Juveniles de Franco. Nunca se ha aclarado de donde vino el disparo, aunque según el médico que lo operó este se había realizado desde detrás, lo que hace plausible la hipótesis del disparo accidental de alguna arma que portará algún camarada suyo, o de la policía. Resulta improbable que los estudiantes movilizados por los comunistas portaran armas.

La lectura que el Régimen hizo de los sucesos de Madrid fue inequívoca: detrás de todo ello estaban los comunistas. En esta lectura participaban no solamente los integristas del Opus Dei, sino también muchos falangistas del Movimiento. Girón de Velasco habló de una conjura de «marxistas y monárquicos{12}». Fue así a partir de este momento. La caída de Ruiz Giménez, la dimisión de Laín y Tovar, el encarcelamiento de Ridruejo y la disolución del SEU abortan completamente el intento del falangismo radical de dirigir, o al menos participar, en el movimiento estudiantil.

El vacío dejado por el falangismo radical en la Universidad española será ocupado por el renaciente partido comunista, que a lo largo de las décadas de los 60 y 70 practicó con éxito la política de entrismo y agitación cultural que en su momento intentó el grupo de Burgos. Esta fue la universidad que muchos conocimos.

Si hubo una disidencia falangista a Franco, esta fue la del grupo de Burgos. Lo demás son cuentos de viejas.

Notas

{1} Rosales fue amigo personal de Garcia Lorca, al que intento salvar la vida ocultandolo en su propia casa. Al final el poeta sevillano seria asesinado por orden de un dirigente local de la CEDA con el apoyo de los militares.

{2} Francisco Morente, en su libro Dionisio Ridruejo, del fascismo al antifranquismo distingue tres «familias políticas» entre los falangistas durante la guerra civil y el primer franquismo: la radical, capitaneada por Serrano Suñer, la más proxima a los fascismos europeos , que aspira a construir el Estado Nacional-Sindicalista sin concesiones; los «legitimistas», formadas por personas proximas al entorno personal de José Antonio Primo de Rivera, como su hermana Pilar o José Antonio Girón, que aspiran unicamente a parcelas de poder e influencia en el Nuevo Estado, y los «oportunistas» que aspiran a hacer carrera personal, poniendo la Falange al servicio de Franco sin contrapartidas políticas, como Arrese o Fernández Cuesta.

{3} Que ha sido uno de los intelectuales españoles más egregios del siglo XX

{4} En este punto es donde se aprecia de formsa más nítida la diferencia del grupo de Burgos con otro grupo de intelectuales muy influyente en el franquismo, el de Acción Española, es decir los discípulos de Ramiro de Maeztu, que después constituiran el Opus Dei.

{5} Que fuera o no viable desde el punto de vista económico es otra cuestión. Ni Laín ni ningún otro miembro del grupo de Burgos era economista.

{6} Algunos de los poemas de Antonio Machado sobre Castilla podrían haber sido escritos por un falangista.

{7} Juan Domingo Muñoz fue el único falangista fusilado por Franco.

{8} Dionisio Ridruejo: del fascismo al antifranquismo, Ed. Síntesis, Madrid 2006, pág. 381.

{9} Este personaje, después de su defensestración política, empezó a hablar de la «tercera fuerza» y del centrismo. Sus ideas se plasmarían más adelante en la formación de la UCD.

{10} Ver la obra de José Luis Villacañas, Ramiro de Maeztu y el ideal de la burguesia en España, Espasa Forum, Madrid 2000, págs. 450-473.

{11} Fernando Sanchez Dragó Muertes paralelas, Planeta, Barcelona 2006.

{12} Es evidente que en estos incidentes los monarquicos no aparecen por ninguna parte.

La Cruz Céltica: Un Símbolo Nacional-Revolucionario.

 


Al margen de su simbolismo religioso la Cruz Céltica ha sido un símbolo adoptado por la casi totalidad de las organizaciones Nacional-Revolucionarias. La "céltica" tal y como se la conoce popularmente entre los NR, se convirtió en el emblema de la revolución social y nacional europea.


Aunque antes de la II Guerra Mundial existieron organizaciones políticas de ideología fascista que utilizaron emblemas con la cruz solar no puede afirmarse que estos partidos fueran los precursores de la "céltica" asumida como símbolo NR. La primera organización que utilizó este emblema como símbolo político fue la francesa Jeune Nation, de Pierre Sidos y Dominique Venner en 1955, posteriormente fue utilizado en Francia por la Federación de Estudiantes Nacionalistas, por Occident y por algunos grupos de la OAS, para ser finalmente adoptada por Ordre Noveau y el GUD.

Pero fue en Bélgica de la mano de Jean Thiriart donde la "céltica" cobró protagonismo a través de la publicación dirigida por el optometrista belga, "Nation Belgique", que daría paso a la organización Joven Europa. La rápida expansión de este partido transnacional por Europa hizo que la "céltica" fuera poco a poco convirtiéndose en un símbolo reconocido como revolucionario, europeísta y comunitario.

En España fueron, como no podría ser de otra forma, los militantes españoles de Joven Europa quienes utilizaron en 1963 por primera este emblema político. Pero quienes dieron a conocer la "céltica" de forma mucho más amplia fueron los miembros del Circulo español de amigos de Europa (CEDADE). Esta organización Nacional-Socialista utilizó profusamente este símbolo NR, comaginando con el propio de su organización y la svástica. Mucho tuvo que ver en ello los muchos contactos que esta asociación mantenía con infinidad de organizaciones europeas de tipo nacionalista.

Más tarde serían partidos creados a partir de escisiones de CEDADE, FN o FEJONS, como el Frente Nacional de la Juventud o Juventudes Nacional-Revolucionarias, el Frente de la Juventud o Joven Nación quienes serían portadores de la "céltica". A mediados de los años ochenta, tras la desaparición del Frente de la Juventud y otros grupos más o menos NR, fue Bases Autónomas, y en menor medida Vanguardia Nacional Revolucionaria, quien popularizó de nuevo este símbolo. En efecto, su desenfrenado activismo hizo que este símbolo estuviera presente en actos, manifestaciones, pintadas, panfletos o carteles. La "céltica" se convirtió en el emblema de la juventud patriota rebelde, una juventud que buscaba nuevas vías fuera del patriotismo nostálgico y caduco.

Pero la "céltica" ha sido también objeto de tergiversación y manipulación. Muchos fueron los jóvenes , o pequeñas organizaciones fantasma, quienes utilizaron este símbolo para defender todo lo contrario de lo que en su origen representó y representa. La "céltica" ha sido definida por los "cazanazis" a sueldo del Sistema como la "nueva svástica", ha sido utilizada por organizaciones reaccionarias contrarias a los principios NR, ha sido usada por grupos violentos sin ideología alguna, e incluso ha sido adoptada por grupos de delincuentes comunes disfrazados con supuestos ideales. Por todo ello, y debido sobretodo, a la debilidad de las organizaciones Nacional-Revolucionarias, este ha sido el motivo por el cual los movimientos NR han abandonado de forma gradual esta insignia y han ido adoptado otros símbolos más actuales y acorde con las estrategias de sus respectivas organizaciones políticas.

La "céltica" es el emblema que muchos NR llevamos en el corazón, es el símbolo que pintamos por primera vez en una pared o el que ilustraba una octavilla que repartíamos o un cartel que pegábamos. Es el distintivo con el que hemos identificado nuestras ideas durante décadas. Poco importa ya, el mal uso que se haga de ella por parte de algunos, las banderas negras con la céltica blanca seguirán ondeando en la historia del movimiento NR.

Extraído de "¿Qué es ser Nacional-Revolucionario?".

Filippo Corridoni: l'interventista (di Alceste de Ambris)

 


L'INTERVENTISTA


UN FOCOLARE DI FEDE


Quando scoppiò la guerra europea, Filippo Corridoni si trovava in carcere, per una delle solite montature giudiziarie, con le quali la polizia si illudeva di «mettergli giudizio».

Corridoni era allora alla testa dell'Unione Sindacale Milanese ed io — ritornato dall'esilio l'anno precedente — facevo vita comune con lui in una modesta «pensione» posta al quarto piano di una casa di via Eustachi, nei nuovi quartieri fra Porta Venezia e Loreto. Oltre a Corridoni ed a me, s'assidevano quotidianamente al desco della «pensione» Attilio Deffenu — un piccolo sardo, morto anch'e gli eroicamente al fronte combattendo con la Brigata Sassari —Michele Bianchi, Cesare Rossi, e mio fratello Amilcare, compagno di Corridoni nella dirigenza dell'Unione Sindacale Milanese.

Era un cenacolo rivoluzionario, la «pensione» di via Eustachi, e non mancava di carattere. L'omogeneità politica di coloro che la componevano non escludeva le più profonde diversità individuali. Ma fra quegli uomini di tutte le razze e di tutti i temperamenti, che s'armonizzavano in una idealità comune, vigeva un'amicizia, così sincera e fraterna da escludere perfino — cosa estremamente rara nei cenacoli politici — le meschine gelosie, le malignità e le maldicenze reciproche.

Io, che ho avuto la fortuna di far parte di quel gruppo fino a che la guerra non venne a scioglierlo, non posso ripensare senza commozione alla «pensione» di via Eustachi. Povera «pensione», divenuta silenziosa e vuota dalla fine del maggio 1915: mentre prima era così piena di fervore, di entusiasmo operoso, di feconde discussioni, di amichevoli alterchi, di voci e di risa!
 
Essa era un po' lo scalo del sindacalismo rivoluzionario italiano ed internazionale. Ben pochi degli agitatori più noti non sono passati nella saletta da pranzo della «pensione» di via Eustachi e non si sono assisi a quella tavola. Per non parlare che dei morti, ci veniva Vidali, che portava seco la nostalgia della sua Trieste; Chiasserini, ancora legato formalmente al partito socialista, ma con lo spirito e con l'opera interamente con noi; Reguzzoni, fervido di vita; Rabolini, con un viso di fanciulla, maschera dolce di una volontà eroica; Peppino e Baldino, i due fratelli di Corridoni; il modesto e valoroso Luigi Maltoni, da un paese della Romagna che ha un nome evocatore di meridiane luminosità: Terra del Sole... Tutti questi che ho nominato caddero in guerra, con la divisa del volontario d'Italia. Gli altri che sono passati nella piccola saletta della «pensione» di via Eustachi non è possibile ricordarli tutti. Anche dall'estero giungevano gli ospiti: francesi, belgi, inglesi, russi... Vi furono persino degli armeni e degli ungheresi. 

A volte — sarebbe meglio dire: assai spesso — attorno alla tavola che ci accoglieva due volte al giorno, c'era qualche posto che rimaneva vuoto per delle lunghe settimane. Per lo più era quello di Filippo Corridoni; ma anche gli altri, di quando in quando, si assentavano: si trattava di villeggiature più o meno brevi... al Cellulare. Eppure, malgrado queste tristezze, malgrado l'ardore delle lotte nelle quali eravamo impegnati, la insidia che sentivamo attorno a noi, i pericoli di ogni ordine che continuamente ci minacciavano — eravamo lieti e vivacemente disposti a godere quel poco che la vita ci offriva, nella modestia estrema delle nostre condizioni economiche, fra l'una e l'altra battaglia, fra un periodo di prigionia ed un altro di esilio. Eravamo tutti giovani, ma già veterani delle più aspre lotte che si combattessero allora; e sembrava che un oscuro presentimento ci sollecitasse a cogliere le brevi ore di gioia con l'avida fretta di chi nol potrà più fare domani: «Chi vuol esser lieto sia — del doman non v'è certezza», ripeteva spesso Corridoni che riempiva volentieri la «pensione» delle sue fresche fragorose risate ed aveva «nondimeno velati sovente gli occhi di una lieve mestizia, come se l'ombra dell'avvenire e della morte, si protendesse, ignota a lui stesso, sull'anima sua».

 

LA GUERRA!


Venne l'attentato di Serajevo, e poi — con rapido rovinìo, che l'Internazionale, in cui noi credevamo, non tentò neppure di rallentare —la guerra! Io avevo passato quindici giorni d'inferno, dopo l'invasione barbarica del Belgio, mentre nell'animo mio rissavano atrocemente le ideologie alle quali avevo creduto fino a quel momento e la tremenda realtà che le distruggeva con l'impeto inesorabile delle baionette tedesche. Mi risolsi infine a dir forte quel che la coscienza mi dettava, cogliendo l'occasione di un invito rivoltomi dall'Unione Sindacale Milanese perché parlassi su «Il Proletariato e la Guerra».

La vigilia della conferenza confidai ai miei compagni della «pensione» : — Domani dirò delle cose che forse mi metteranno contro tutta la massa operaia. Ma questo è il meno: mi addolorerebbe assai più se dovessi romperla anche con voi altri...
 
I compagni della pensione — che erano tutti presenti, meno Corridoni arrestato, come già dissi per una delle solite montature giudiziarie — mi risposero promettendo di non mancare alla conferenza. Quella sera si mangiò in un silenzio assai triste. I compagni intuivano che io avrei detto quel che essi stessi pensavano senza osare di confessarlo. Tutti si aveva la sensazione di trovarsi ad uno di quei passi decisivi che non si fanno a cuor leggero. Era tutto il nostro passato, l'idolo cui avevamo sacrificato interamente la nostra giovinezza, che ci preparavamo ad abbattere colle nostre mani iconoclaste. E sorgeva anche il dubbio angoscioso che la nostra fraterna amicizia, cementata dalla continua cooperazione di intenti e di opere, potesse andare infranta nel cozzo di quel momento tragico.

La sera dopo fummo lieti di ritrovarci ancora spiritualmente uniti come prima. I compagni mi avevano attentamente ascoltato senza trovare nessun punto essenziale di dissenso nella dimostrazione da me fatta della necessità dell'intervento italiano nella grande guerra. Tutti erano d'accordo nel riconoscere che non si poteva e non si doveva tacere quello che la nostra coscienza di uomini e di rivoluzionari ci imponeva di conclamare come una dura verità. La gioia della confermata unione dei nostri spiriti era turbata soltanto da un dubbio: — Che cosa avrebbe detto Corridoni? Corridoni, così fervido ed assolutamente convinto nel suo antimilitarismo, Corridoni che poteva giustamente sentirsi esasperato per il recente iniquissimo arresto, Corridoni isolato nel carcere, dove difficilmente penetrano le nuove correnti di idee, perché sono ignoti o mal noti ai rinchiusi i fatti che le determinano, Corridoni avrebbe compreso il nostro atteggiamento? Non ce lo saremmo forse trovato contro, con tutto il suo vigore combattivo, con l'enorme potenza della sua volontà e della suggestione che esercita sulla folla, con la capacità ben nota in lui di lotta e di sacrifizio, non appena fosse uscito dal Cellulare?

Il dubbio continuò a tormentarci tanto che fu deciso un colloquio con Corridoni per sapere che cosa pensava. Fummo incaricati Deffenu ed io di recarci al Cellulare. Ricordo ancora, come se fosse stato ieri, la commozione che ci invase quando ai nostri accenni piuttosto cauti Corridoni proruppe in una delle sue belle risate prendendo in giro la nostra diplomazia e dichiarandosi completamente d'accordo con noi. — Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo volerla e farla, non appena l'Italia fosse scesa in campo... Corridoni diceva questo nel parlatorio triste, sotto gli occhi vigili del secondino. Ma nel carcere in cui soffriva ingiustamente aveva già preparato se stesso al sacrifizio. La sua giovinezza era l'olocausto che offriva alla Patria matrigna, prodiga per lui soltanto
di persecuzioni e di fame.
 

LA CAMPAGNA PER L'INTERVENTO



Appena uscito dal Cellulare, Corridoni si gettò nella lotta furibonda, già iniziata per l'intervento dell'Italia. Vi si gettò come sapeva far Egli, senza respiro e senza limiti, con tutto l'impeto del suo entusiasmo e della sua fede assoluta, con un ardore di sacrifizio che preludeva al sacrifizio estremo cui si era votato.

«E' rimasto memorabile — scriveva, commemorandolo pochi giorni dopo la morte, Attilio Deffenu — il comizio tempestoso all'Arte Moderna, verso la fine del novembre 1914, ove il problema dell'interventismo rivoluzionario era posto per la sincerità davanti alla perplessa coscienza operaia; ma è sconosciuto, eccetto che agli intimi, un episodio che mi piace rievocare. Nel pomeriggio del giorno fissato per il comizio, Corridoni aveva ricevuto dalla famiglia un dispaccio telegrafico ove gli si annunziava un improvviso aggravamento delle condizioni di salute della mamma inferma: sembrava prossima una catastrofe il colpo fu terribile: ma il comizio era indetto: mancare poteva sembrare una fuga, certo significava esporsi alle critiche perfide e maligne degli oppositori neutralisti. E vi andò, è facile immaginare con quale animo; parlò, come egli solo sapeva e poteva, con alta e commossa eloquenza, vincendo l'urlante canea dei socialisti assoldati da Bulow, riuscendo, nonostante l'organizzato ostruzionismo, a farsi ascoltare e applaudire. A un certo punto, ricordo, egli prese a dire per quali ragioni, nonostante la sua incrollabile fede internazionalista, non si sentiva di poter rinnegare la patria, il paese che gli aveva dato i natali, dove si parlava il dolce idioma della sua mamma...

 — Federzoni! — L'invettiva tendenziosa, mi ante a snaturare il sentimento ideale che moveva Corridoni ed a dipingerlo come un transfuga dell'idea sindacalista rivoluzionaria ch'Egli amava al di sopra di tutto, risuonò nell'aula solcata dai lampi dell'ira, arrossata dal fuoco irrompente delle passioni.
 
«Egli si volse verso il gruppetto degli insani, non fiatò. Ma chi gli era vicino vide una lacrima scendergli per la gota, vide Lui trangugiarla in silenzio, penosamente, «sentì» che il suo pensiero era rivolto alla madre lontana che forse in quel momento agonizzava in un letto di dolore... «Nel febbraio di quest'anno (1915) veniva ancora arrestato in treno, sotto l'imputazione di un reato di stampa, mentre si recava a Treviso a tenervi una conferenza a favore dell'intervento. E dal carcere mi scriveva il 24 febbraio: «Vedo che la vostra propaganda per l'intervento è incessante. Ne sono proprio contento. I neutralisti avranno indubbiamente tratto profitto dal mio arresto, gridando che in Italia la libertà vien più manomessa che in Austria, ecc. Di' loro che per quanto io sia trattato alla tedesca, griderò sempre: Viva la guerra!, e che ci vuol ben altro che queste piccole miserie per scuotere la mia profonda e radicata convinzione che solo dalla sconfitta degli imperi centrali l'Europa può essere trascinata verso una maggiore e più solida libertà».

Nel marzo, dopo un processo alle Assise, venne nuovamente posto in libertà ed egli tornò alla battaglia interventista con un vigore che il carcere sembrava aver rinnovellato.

Chi non rammenta l'opera magnifica di Corridoni, culminante nelle giornate del maggio 1915, quando furono travolte in un'ondata di passione le resistenze neutraliste? In quei giorni memorabili, Corridoni fu veramente il dominatore di Milano. Le piazze e le strade erano sue. La sua parola vi accendeva fiamme di entusiasmo, la sua persona ed il suo gesto trascinavano la folla alle ultime vette della volontà eroica. Molti vi sono certamente che hanno ben lavorato per l'intervento; ma nessuno, in Italia, può dire di aver dato alla Causa più di Filippo Corridoni. Egli non offriva soltanto se stesso, l'opera sua instancabile, la sua pura giovinezza: offriva anche la popolarità guadagnata in otto anni d'instancabile fatica, attraverso rinunzie e pene inenarrabili. Tutto bruciava sull'ara della Patria vista con occhi di figlio nell'ora del dolore. Colui che aveva conosciuto la Patria soltanto nella forma odiosa del poliziotto persecutore e del giudice iniquo.


Alceste De Ambris - 1922

sabato 8 aprile 2023

Perché gli intellettuali sono vili? (di Mircea Eliade)

 


 

Avete mai visto un “intellettuale” nel momento di una crisi politica, o di un grande
mutamento internazionale? 

Non solo è sbigottito e disinformato; questa non sarebbe neanche una vergogna troppo grande Ma è addirittura spaventato, è travolto dalla paura, è paralizzato dal panico. È confuso, fa domande a tutti, ascolta chiunque gli parli, ha una fiducia cieca in ogni imbecille politico, trema per la propria vita e libertà come l’ultimo degli schiavi. Solo allora si rende conto dello scarso “interesse” che ha avuto per la vita sociale intorno a lui. E cerca dappertutto appoggio, riparo, incoraggiamento. Rinuncia ad ogni dignità personale, dimentica completamente la sua missione storica: la paura fa di lui un farabutto o uno schiavo. 

Ogniqualvolta circolano per l’aria psicosi politiche, ognigualvolta accade o ci si aspetta qualcosa di grave — una rivoluzione, una riforma radicale, un attentato, un cambiamento essenziale dell’ordine sociale — il povero “intellettuale” romeno perde la testa. (Naturalmente, parlo solo dell’“intellettuale” puro, di quello che non aderisce a partiti o a gruppi politici).

Allora egli cerca di fare le transazioni più umilianti; e non di un concreto ordine politico, ma transazioni senza alcun profitto, senza alcuna efficacia. Dichiara al primo che incontra, che approva certi gesti politici, che anche lui la pensava così, che quello che si fa va bene ecc. Nella notte dell’insurrezione comunista agli stabilimenti Grivitza, ho incontrato un eccellente romanziere che, venuto a conoscenza di quanto era accaduto, mi ha fatto vedere subito il suo ultimo romanzo, uscito in quei giorni, per dimostrarmi che anche lui aveva promosso
una rivoluzione sociale e antiborghese.

Può darsi che fosse così. Ma non è questo il fatto significativo, bensì il fatto che l’eccellente romanziere si era affrettato a cercare punti di contatto con un movimento sociale del quale non sapeva nulla, non ne conosceva né i promotori né gli avversari, non sapeva se avesse possibilità di successo e di efficacia ecc. Non ne sapeva nulla. Scosso dalle sue preoccupazioni “intellettuali”, aveva avuto paura. Così come tutti gli intellettuali cristiani avevano avuto paura dei successi della “Guardia di Ferro” e avevano cominciato ad approvarla, non perché il programma della “Guardia” incontrasse il loro gradimento, ma perché temevano di essere sospettati e perseguitati in seguito ad una eventuale vittoria di essa. Non ho niente da dire contro gli “intellettuali” che passano da una parte all’altra della barricata
sollecitati da una certa coscienza sociale o nazionale. Ma mi ripugna la viltà degli intellettuali apolitici, che tutt’a un tratto scoprono la loro adesione ad un movimento sociale proprio alla vigilia del suo successo (o di quello che sembra essere tale).

Ed essi non fanno ciò per interesse, perché nella maggior parte non hanno niente da guadagnare, in quanto “intellettuali”, da un tale movimento. Lo fanno puramente e semplicemente per paura, per viltà. Paura che ha la propria radice nella mancanza di una coscienza “funzionale” (ci si consenta l’espressione),
nel non essere consapevoli che loro, gli “intellettuali”, rappresentano — nonostante
ogni violenza e ogni stupidità politica — l’unica forza invincibile di una nazione. Se
qualunque intellettuale si rendesse conto di ciò che egli rappresenta nella società romena, e soprattutto si rendesse conto di chi egli rappresenta, allora gli importerebbe pochissimo di qualsiasi rivoluzione, di qualsiasi guerra, di qualsiasi crisi politica. Grande o piccola, vinta o vittoriosa, una nazione non affronta l’eternità né per mezzo dei suoi politici, né per mezzo dei suoi contadini o dei suoi proletari, ma soltanto per mezzo di quello che si pensa e si crea all’interno dei suoi confini. L’ora di oggi o di domani può essere dominata da chiunque; può esser dominata perfino dai nemici, e ciò senza che una nazione perisca. Le forze che si nutrono dell’eternità, le forze che sostengono la storia di un paese c ne alimentano la missione, non hanno nulla a che fare col politico, con l’economico, col sociale. A portare tali forze, a esaltarle, sono solamente gli “intellettuali” di un paese, l'avanguardia che combatte da sola, sulle frontiere del tempo, contro il nulla. Tante province romane, mirabilmente civilizzate, sono perite per sempre perché per secoli non sono esistiti cervelli in grado di dominare la massa amorfa e le effemeridi della storia, in grado di creare valori spirituali, di nutrire una cultura. Quasi tutte le repubbliche sudamericane vivono la medesima esistenza periferica,
semistorica, in attesa che il tempo sopprima la loro geografia e il nulla inghiotta la loro attuale vita “politica.

Perciò, questo rappresentano gli “intellettuali”: la lotta contro il nulla, contro la morte; la permanente affermazione del genio, della virilità, del potere creativo di una nazione. E, in quanto tali, essi non hanno nulla da temere, non hanno motivo di farsi prendere dal panico e di umiliarsi davanti ad un movimento politico che ha la possibilità di aver successo. Innanzitutto, perché qualunque movimento politico affonda le proprie radici nelle idee di un intellettuale o di un gruppo di intellettuali. (Non parlo, naturalmente, né di governi né di legislazioni astratte, bensì di rivoluzioni, di forme e di reazioni concrete e storiche).

In secondo luogo, perché nessuna rivoluzione e nessun atto politico riguarda direttamente l’intellettuale. Può riguardare, in ogni caso, solo i suoi interessi di corporazione, i suoi agi, la sua famiglia. Nell’ora in cui qualcosa avviene politicamente, e quindi si consuma, l’intellettuale si trova molto più avanti, occupato a creare qualcosa che si nutra dell’eternità oppure a fare qualcosa che solo molti anni più tardi discenderà nelle strade e acquisirà valore politico.

Nell’ora di una rivoluzione o di una crisi, il vero intellettuale si trova troppo lontano per poter tornare indietro. È da molto tempo che egli è passato oltre. Quello che alle masse sembra nuovo, per lui è vissuto, assimilato, consumato da molto tempo.

Indifferenza nei confronti della politica, del presente politico? Niente affatto. Solo tolleranza e comprensione. Dài una mano e passi oltre. Ma in nessun caso vale la pena che tu perda l’equilibrio, ti spazientisca e patteggi con chicchessia, dimenticando che nessuno può avere il diritto di patteggiare con te. Perdi la libertà? Questa, nessuno te la può prendere. Metti a repentaglio la tua situazione materiale? Ciò riguarda la tua famiglia, non te. Rischi la vita? E allora? Quello che tu rappresenti non muore mai. Se la pensi diversamente, rinuncia all’ “intellettualità” e diventa uomo politico.

(“Criterion”, a.I, n.2,
1 novembre 1934, p.2;
trad. di Claudio Mutti})



venerdì 7 aprile 2023

Hendrik Verwoerd, the failure of multi ethnicity


Hendrik Frensch Verwoerd was born in the Netherlands on September the eighth, 1901. The second child of Anje Strik and Wilhelmus Johannes Verwoerd a devoutly religious man and a shopkeeper. After having been a Professor of applied psychology, sociology, and social science at the University of Stellenbosch, in 1934 Hendrik Verwoerd entered politics. He served for several years as co-director of a social housing project in Cape Town. In 1936  Hendrik Verwoerd was offered, by Daniel Malan, leader of the National Party, the founding editorship of ‘Die Transvaler’ publication, which he took up in 1937 with the added responsibility of helping to rebuild the National Party of South Africa in the Transvaal. Die Transvaler was an Afrikaner nationalist publication supporting the aspirations of agricultural and labour rights in a combination of republicanism and protectionism. The paper assisted in voicing the sentiments of most South Africans who believed in the essential need for socio-economic reform. In 1938, he was elected to an executive position in the National Party. The Nationalist Party achieved power in the general election of the 26th of May, 1948. Running on the platform of self-determination and separate development as it was termed for the first time, Prime Minister Malan benefited from strong support in the rural electorates, defeating General Jan Smuts, who lost his own seat of Standerton. Most party leaders agreed that the nationalist policies were responsible for the National Party’s victory. Herenigde Nasionale Party leader Daniel Malan called for stricter enforcement of job reservation protecting the rights of the working class as well as the rights of workers to organise their own labour unions outside of company control. Hendrik Verwoerd was elected to the Senate later in the year of 1948 and became Minister of Native Affairs (where he applied his scholarly expertise to learning about the Bantu, and expected his staff to do likewise) under Prime Minister Malan in 1950, until his appointment as Prime Minister in 1958. Through his position in political office Hendrik Verwoerd succeeded in implementing the National Party’s program. Hendrik Verwoerd gradually gained popularity with the Afrikaner electorate, expanding his political support with an overwhelming constituency victory in the 1958 elections. Due to the untimely death of Prime Minister J.G. Strijdom, Hendrik Verwoerd was appointed by the Governor-General of the Union of South Africa to organize a Government as Prime Minister. The National Party’s implementation of separate development according to Dr. Verwoerd envisioned a “policy of good neighbourliness”. This included the institution of identity papers, about which much nonsense has been written and spoken. Their real purpose was to protect the employment of africans in South Africa from the multitudes of foreign who sought to migrate to the country for a better life. Maintaining a peaceful coexistence with independent neighbouring states and aspiring future nation states. Dr. Verwoerd realised that the political situation in South Africa, a result of recent British imperial rule over the nation, was untenable. Under Prime Minister Verwoerd the following legislation was passed enabling the course to independence for the various Black nations in South Africa. Hendrik Verwoerd was Prime Minister of South Africa until 1966. Renowned for his intellectual leadership of a nation which he skillfully steered, through the transition from a dominion of the British Empire to a sovereign Republic in May 1961. Hendrik Verwoerd is widely remembered for the pursuit of domestic policies that envisioned the gradual establishment of free and independent nation states in line with principles adopted by European powers at the time. South Africa’s social construct was entrenched during the years of British imperial rule. With increasing autonomy in domestic affairs South Africans sought to guarantee their existence on the African continent by the progressive federation of the territory in accordance with economic and political stability through the policy of separate development. In South Africa, this policy was rather one of overwhelming success in the preservation and advancement of the myriad of the country’s separate identities and was a doctrine of state that had the support of the majority of blacks and coloreds. Under the premiership of Dr. Hendrik Verwoerd the South African state invested large sums pursuing development policies in the Bantu states toward “survival and full development, politically and economically.”. Industry within the homelands was encouraged through tax incentives and labour benefits, thus establishing a symbiotic relationship between the free market and the rapidly developing economies of each nation state. Industries near, but not within, the homelands were encouraged, which enabled black workers to commute in order to stay with their families while employed. Hence the family unit was maintained by separate development and its associated economic planning; a situation that has since been destroyed by what the African National Congress was to call the “correct Marxist-Leninist path.”  Communists were intent on centralizing industrial development within the cities as a move to break down the homelands and necessitate black migrant labor.  Investment in education, commerce, industry and agriculture provided for the development of facilities from primary to tertiary education servicing communities in their native language. Employment in the autonomous nations was secured through the establishment of development corporations which funded communal estates and various enterprises that guaranteed the prosperity of its citizens. South Africa financed the construction of infrastructure in all the designated homelands, hospitals, housing, parliaments, stadiums. Established and trained their individual military and security forces in the interests of founding viable independent nation states.

The Promotion of Bantu Self-Government Act (1959)
Bantu Investment Corporation Act (1959)
Extension of University Act (1959)
Coloured Persons Communal Reserves Act (1961)
Preservation of Coloured Areas Act (1961)

It was under Verwoerd that the generous allocation of land for self-administering homelands was instituted. The policy was analogous to the cantons of Switzerland, and was heartily and openly supported by Verwoerd’s friend, Field Marshall Montgomery, and even by the UN Secretary General, Dag Hammarskjöld.The Republican ideal was a long term goal for the National Party in South Africa. In January of 1960, Hendrik Verwoerd announced that a referendum would be called to determine the Republican issue, the objective being a Republican form of government within the Commonwealth of Nations. Two weeks later, British Prime Minister Harold McMillan visited South Africa. In an address to both Houses of Parliament MacMillan made his infamous Winds of Change speech. The South African parliament accepted the referendum and on the fifth of October, 1960 voters were asked if they favoured a Republic for the Union. The majority of the electorate voted in favour. The Republic of South Africa came into existence on the 31st of May 1961. Hendrik Verwoerd’s popularity and accomplishments in South Africa as well as abroad were overwhelming, Dr. Verwoerd’s staunchest critics could not avoid recognizing the Prime Minister’s success. The Rand Daily Mail published the following on the 30th of July, 1966:

"At the age of 65 Dr. Verwoerd has reached the peak of a remarkable career. No other South African Prime Minister has ever been in such a powerful position in the country. He is at the head of a massive majority after a resounding victory at the polls. The nation is suffering from a surfeit of prosperity and he can command almost unlimited funds for all that he needs at present in the way of military defence. He can claim that South Africa is a shining example of peace in a troubled continent, if only, because overwhelming domestic power can always command peace. Finally, as if that were not enough, he can face the session (of parliament) with the knowledge that, short of an unthinkable show of force by people whom South Africans are rapidly being taught to regard as their enemies, he can snap his fingers at the United Nations. Thanks to the recent judgement of the Hague Court (on the South West Africa issue) he can afford to condescend to the world body, graciously remaining a member as long as it suits him. Indeed, the Prime Minister has never had it so good.”

Hendrik Verwoerd’s government secured a stable and prosperous environment to the benefit of all South Africans including foreign and migrant populations. Living standards for blacks rose 5.4% per annum versus 3.9% for Whites. South Africa’s economic growth by 1965 was second highest in the world at 7.9%. Inflation stood at a mere 2% and the prime interest rate at only 3% per annum. Domestic savings were so great that the Republic of South Africa needed no foreign loans for normal economic expansion. A large portion of the South African budget was invested in development for blacks within South Africa and in the Nation States. Blacks in South Africa had a far superior standard of living in comparison to the rest of Africa. Superior health care gave black South Africans a vastly inferior infant mortality boosting population growth. Citizens of the Bantu States in South Africa owned more wealth than all other African countries combined. Thousands of blacks from neighboring countries would constantly attempt to enter the country illegally in order to share in that security and prosperity. Such achievements were bound to attract the envy of powerful foreign and malevolent domestic foes. A few months preceding Hendrik Verwoerd’s assassination, the editor of the British periodical, “Statist”, Paul Bareau, wrote:

 "South Africa is in the midst of a massive boom. Attracted by cheap labour, a gold backed currency and high profits, investors from all over the world have ploughed money into the country, and the new industries that they have started have sent production, consumption – and the demand for labour – soaring. Such are the proportions of prosperity"

Numerous quotes of this nature bear witness to the success of Dr. Verwoerd’s policies. South Africa had become an emerging economic and military power a stabilizing force amongst an increasingly unstable continent. South Africa was therefore a threat to Communist interests seeking to exploit the valuable resources of a weakened post colonial Africa. The Rivonia Trial in 1963 provided added ammunition for the opponents of Verwoerd, when a terrorist Communist party conspiracy had been unearthed. This network of Communist terrorists had planned a bombing campaign against civilian targets. On the 16th of April, 1960 Dr. Verwoerd was shot and injured by David Pratt during the opening ceremony of the Rand Easter Show at Milner Park in Johannesburg. Pratt was declared insane and sent to a psychiatric institution in Bloemfontein, committing suicide a few months later. The Attorney General had a strong suspicion that the murder was politically motivated and that a rootless colored man, Michaelatos Tsafendas was a “hired killer”. Tsafendas was incarcerated indefinitely. On hearing of Hendrik Verwoerd’s assassination, the then Prime Minister of Rhodesia, Ian Douglas Smith said:

"To those who knew him personally, and I count myself as one of those who had this privilege. His deep sincerity in everything he undertook, his gentleness and his kindness towards all people. His championing of civilized and Christian ideals, and his wise counsels in times of peace and adversity will be greatly missed."

Hendrik Verwoerd’s funeral took place on September 10, 1966. Hendrik Verwoerd led South Africa through her most difficult stage of development from a dependent British Dominion to a respected and powerful force in the global arena. Dr. Verwoerd became the towering statesman of the 20th Century and he is equal, if not superior to any of his contemporaries in the Western World. A statesman that may be evaluated on the grounds of his achievements in the face of International enmity from the Communist block. He secured South Africa’s future against the total onslaught, whilst elevating the nation to a stupendous position of stability and prosperity seldom if ever equaled in history under the circumstances. By the time he died, Hendrik Verwoerd had built his own monument which was there for all to see: the Republic of South Africa.The people had been forged, the country was militarily strong and resilient, the police and security forces were effectively dealing with all attempts at subversion and infiltration, the country’s economy was dynamic, expanding and had become largely self-sufficient while present South Africa has sadly been reduced to an irredeemable shambles by ANC.
 

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