sabato 25 marzo 2023

Filippo Corridoni: il rivoluzionario (di Alceste de Ambris)

 


Pubblichiamo il profilo dedicato a Filippo Corridoni dal suo compagno e commilitone Alceste De Ambris e pubblicata nel 1922. In questo primo contributo De Ambris si sofferma sulla biografia e sul carattere rivoluzionario del protagonista. 


PREMESSA


I lettori comprenderanno senza sforzo perchè le pagine che presentiamo qui innanzi, lungi dall'avere la pretesa di una rigida e gelida obbiettività, risentono vivamente dell'affetto fraterno che legò il biografo a Filippo Corridoni, negli ultimi dieci anni della vita di questi; perdoneranno perciò il loro carattere spiccatamente personale.

Il biografo dubita tuttavia di poter trasmettere ai lettori la sensazione del commosso ardore con il quale ha scritto: soltanto chi ha avuto la fortuna di conoscere Filippo Corridoni e di amarlo e di esserne amato, nella intimità di una lunga amicizia, può comprendere interamente questo, che la penna è impari ad esprimere.

Perchè Filippo Corridoni non era solamente un magnifico agitatore, un condottiero di folle audace ed esperto, un soldato eroico della sua fede: egli era anche un dolce amico, un indimenticabile compagno, un irresistibile fascinatore di anime.

Ricordiamo che, essendo Egli stato a Parigi una sola volta e per pochi giorni, era riuscito a lasciare un ricordo incancellabile perfino negli uomini più freddi di quell'ambiente scettico e blasé, che ce ne parlavano ancora dopo molti mesi con affettuosa ammirazione.

Donde venisse quella sua singolare magnetica forza d'attrazione ch'Egli inconsciamente esercitava anche sugli individui meglio corazzati e più refrattari, non meno che sulle folle, ognuno che abbia intelletto d'amore potrà intendere, leggendo le pagine autobiografiche che pubblichiamo più innanzi.

Di Corridoni si può ben ripetere quello che Mazzini scriveva di Jacopo Ruffini : «Io non trovo qui sulla terra, fra quei che hanno concetto di fede e costanza di sacrifìcio, creatura che ti somigli».

Filippo Corridoni era, difatti, uno di quegli esseri privilegiati che riassumono e sublimano in una sintesi individuale completa le più nobili virtù della stirpe e della generazione cui appartengono.

Anche nei migliori la sincerità della convinzione è qualche volta sfiorata dal dubbio, la volontà del sacrificio trattenuta da esitanze, la profondità della fede turbata da umane debolezze. In Corridoni questo non avveniva mai. Egli aveva raggiunto l'assoluto senza sforzo, perchè a tale lo portava la sua natura di eccezione.

Santa Caterina diceva: «Et si religio jusserit signemus fidem sanguine». Filippo Corridoni non poneva nemmeno il condizionale. Per Lui, affermare col sangue la fede non era una eventualità: era un comandamento certo, un dovere preciso.
 
Forse era questa ormai tranquilla certezza del sacrifìcio che gli permeteva di conservare in mezzo alle prove più aspre quella mirabile serenità, quella fresca letizia giovanile che lo rendeva carissimo a quanti lo conoscevano, come una dote estremamente rara negli uomini la cui vita è una lotta senza riposo.

E tuttavia cadrebbe in un grossolano errore chi credesse che il concetto di un dovere superiore fosse in Filippo Corridoni causa od effetto di fanatismo cieco d'impeto irragionevole, d'unilateralità sentimentale non sussidiata dalla conoscenza necessaria dei fatti reali e della loro relatività.

Corridoni, come tutti coloro cui le urgenze continue della azione non concedono l'agio di una riposata meditazione, non ebbe mai tempo di documentare scrivendo libri, quanto il suo vivacissimo intelletto, maturato da una più che decennale esperienza, poteva produrre. Le manifestazioni di pensiero ch'Egli ha lasciato son quasi tutte frammentarie: articoli di giornali, relazioni di Congressi, lettere, i suoi mirabili discorsi, sempre improvvisati, non furono raccolti se non in riassunti affrettati, scialbi, insignificanti. E non è più possi bile ricostruirli.

Il lavoro più completo di Corridoni consta appena 113 cartelle scritte durante la sua permanenza in carcere, nel'aprile del 1915: brevi pagine, dunque, ma che nella loro concisione hanno tanta originalità di concetti ed acutezza di osservazioni da poter servire di traccia a più di un grosso volume.

Quelle pagine che — per la data in cui furono scritte, appena sette mesi prima della morte — possono essere ritenute come il suo pensiero definitivo, meditato e misurato al pari di un testamento, dimostrano che l'entusiasta trascinatore di folle, il combattente che ardeva di sacrificarsi, era anche un formidabile ragionatore, fornito d'una coltura poco comune vivificata da una intelligenza limpidissima e da una libera ed ampia visione del problema nazionale e sociale.

Nel silenzio triste e raccolto della cella carceraria, Colui che si preparava ad offrire alla Patria l'olocausto santo della sua giovinezza senza macchia, vedeva la realtà storica futura con meravigliosa chiarezza.

Certe sue pagine hanno valore di profezia, duramente confermata oggi dai fatti. Eppure anche davanti alla netta percezione del vero valore e dei risultati non decisivi di quel sacrificio a cui si disponeva, Egli — volontario morituro — rimaneva fermo nell'accettare la guerra con ardente volontà suscitatrice d'inarrivati eroismi.

Giacché Corridoni era, così sicuro di sé e tanto superiore ad ogni umana debolezza, da non aver neppure il bisogno del conforto di una grande illusione per accingersi al compimento del supremo dovere liberamente prescelto. Non respingeva la gelida verità obbiettiva, non cercava d'ingannare se stesso
commisurando il risultato previsto alla grandezza che il sacrificio si disponeva a compiere. Sapeva e diceva che la guerra avrebbe potuto dare soltanto risultati di gran lunga inferiori a quelli che una speranza lusinghiera e fallace lasciava intravedere. Eppure andava serenamente alla guerra.
 
Corridoni ci ha perciò lasciato — con la sua memoria inobliabile — un grande insegnamento di cui bisogna far tesoro: davanti alle necessità riconosciute, anche se dure — per la pienezza della lotta indispensabile alla vita ed alla libertà di un popolo, di una classe, di un individuo — non bisogna mai accasciarsi nel deluso sconforto; ma trarre anzi motivo dalla durezza delle necessità che s'affacciano per affrettare più alacremente l'opera nostra.

Alla memoria di Lui intendiamo pertanto di rendere un triplice omaggio senza velare in alcun modo la schiettezza della nostra parola. Se coloro che ci leggono hanno — come crediamo — nobiltà di sentimento, quali che siano le loro convinzioni politiche e sociali, comprenderanno perchè non abbiamo voluto mutilare Corridoni, parlando soltanto dell'interventista e del Volontario. Anche il Rivoluzionario deve essere compreso ed ammirato dagli italiani che vogliono onorare sinceramente la memoria dell'Animatore e dell'Eroe, perché fu appunto sul terreno della fede rivoluzionaria di Filippo Corridoni che germogliò magnifico il fiore purpureo del Suo sacrificio per la Patria.
 

IL RIVOLUZIONARIO

NEL ROVETO ARDENTE


Conobbi personalmente Filippo Corridoni per la prima volta durante il memorabile sciopero agrario parmense del 1908.

All'inizio del movimento egli si trovava a Nizza, dove si era rifugiato per sfuggire alle conseguenze di una condanna a vari anni di reclusione riportata a Milano per antimilitarismo. Quando la lotta fu nel periodo culminante lo vedemmo piombare a Parma, sotto il nome di « Leo Cervisio », col suo viso sorridente di fanciullo e con un paio di calzoni troppo corti.

In quell'epoca i calzoni di Pippo — così lo chiamavano gli amici — erano sempre troppo corti. Egli cresceva vertiginosamente. Il sarto non aveva ancor finito di confezionargli un abito che già le misure non andavano più bene. Solo alcuni anni più tardi Pippo finì di crescere — grazie al cielo ! — e i suoi calzoni non furono più troppo corti; ma il viso conservò sempre il sorriso ingenuo di una volta.

Cercammo di far comprendere a « Leo Cervisio » tutti i pericoli a cui si esponeva — nelle sue condizioni giuridiche — col partecipare ad una lotta che diventava di giorno in giorno più aspra. Non ci fu verso di dissuaderlo. Volle restare ad ogni costo in quel roveto ardente, esponendosi più di ogni altro, con quella sua tranquilla ed ilare strafottenza che ce lo rendeva ogni giorno più caro. La polizia, del resto, non sospettò mai che « Leo Cervisio » fosse il condannato Filippo Corridoni. Arrestato più volte, fu sempre rilasciato senza che i funzionari della questura dubitassero di aver nelle mani un così terribile delinquente.

Il 20 giugno 1908, quando, per ordine di Giolitti, fu dato l'assalto alla Camera del Lavoro di Parma, egli era sulla strada a difenderla. Un ufficiale di cavalleria, che caricava la folla alla testa di un plotone, gli puntò contro la rivoltella gridandogli : — Va via, o sparo !

« Leo Cervisio » non si mosse. Solo e disarmato, rispose offrendo il petto: — Spara dunque, vigliacco!

L'ufficiale — che non era certo un vigliacco — stupito di una così eroica audacia, non sparò. Frattanto sopravvenne una squadra di giovinotti che respinsero il plotone con un nugolo di sassi e trascinarono seco il temerario compagno, salvandolo attraverso i vicoli dell'Oltretorrente, il noto quartiere proletario e sovversivo di Parma, che doveva poi offrire alla guerra numerosi volontari.
 
La sera stessa Corridoni si trovava con me in uno stanzone sotterraneo di Borgo dei Grassani. C'erano anche alcuni altri, indotti a rifugiarsi là dalla caccia che la polizia dava a tutti i sospetti di partecipare alla dirigenza dello sciopero, che si voleva stroncare ad ogni costo. Per le strade di Parma infuriava la violenza statale: raffiche di fucileria e di mandati d'arresto. Nessuno poteva esser sicuro di non prendersi una palla nello stomaco o di non venire acciuffato come componente dell'associazione a delinquere, inventata dalla fervida fantasia dei funzionari di pubblica sicurezza, per avere il pretesto legale di operare arresti in massa. Il giorno dopo — avuta la sicurezza che il mandato di cattura esisteva solo per me — i miei compagni uscirono dal rifugio. Con loro uscì pure « Leo Cervisio » che restò sulla breccia, nella provincia percossa dalla più dura reazione, per un mese ancora, finche la denunzia ipocrita di un furfante travestito da socialista non lo costrinse a ripigliare la via dell'esilio, sulla quale io già mi trovavo. Venne a salutarmi a Lugano, di passaggio; ed un paio di mesi pù tardi lo ritrovai a Zurigo. Era un ottobre triste ed umido. Corridoni viveva facendo il manovale di muratore. Sfinito dalla fatica, malaticcio, costretto alla miseria più dura, coi calzoni più corti che mai, rideva pur sempre del suo bel riso sereno e negli occhi gli luceva la fede sicura, ardente, gioiosa, come nei momenti più belli delle lotte che avevamo combattuto insieme.

PAGINE AUTOBIOGRAFICHE 


La biografia di Corridoni è stata tracciata da lui stesso, in una lettera indirizzata a persona cara, poco prima della sua morte sul campo. Nulla è più commovente delle pagine semplici e schiette del documento che ho sott'occhio e che riporto integralmente:

«Ho ventotto anni non ancora compiuti. I miei genitori sono operai ed ora vivono in una discreta agiatezza, frutto del loro costante lavoro. Ho frequentato una scuola industriale superiore, da dove sono uscito col diploma di perito meccanico. Venni a Milano nel 1905 e vi esercitai fino al 1907 la professione di disegnatore e tracciatore di macchine. Di idealità repubblicane fin dalla prima fanciullezza, divenni socialista rivoluzionario fin dai primi mesi di mia permanenza in questa città. Entrai nella milizia sovversiva nella primavera del 1906 ed il mio ardore giovanile ed una certa vivacità di intelletto mi condussero subito nelle prime file.

«Nel gennaio del 1907 ero Segretario del Circolo Giovanile Socialista; a marzo fondatore del «Rompete le File» insieme a Maria Rigier. Nell'aprile successivo ero Vice Segretario della Federazione Provinciale Socialista. Allora ero puro di anima e di sensi; non amavo le donne ; non il vino, non la carne. Guadagnavo bene e spendevo pochissimo, in modo da poter disporre della maggior
parte del mio stipendio per le mie idee. Ma incominciò subito contro di me una feroce implacabile persecuzione poliziesca, che si è arrestata alle soglie della caserma, e che probabilmente proseguirà quando avrò svestita la divisa di soldato, se gli.... austriaci non vi porranno rimedio.

«Ebbi nel maggio 1907 la mia prima condanna : e da allora ne ho dovute registrare ben trenta. Per otto anni consecutivi la mia vita è stata asprissima, terribile. Ho fatto ininterrottamente la spola fra una prigione e l'altra, con qualche puntata in esilio.

«Ho sofferto, e tanto, ma ho il supremo orgoglio di poter attestare innanzi all'universo, e senza tema di smentite, che le giornate del dolore sono state da me sopportate con coraggio e fermezza di animo, senza che nessuno possa buttarmi in faccia un istante di debolezza o di viltà.

«Ho patito fame, freddo, dileggi, vituperi, mortificazioni, senza mostrare ad alcuno i miei patimenti. Ho fatto tutti i mestieri, nell'esilio dolo oso, dal manovale di muratore al venditore di castagne. Ho vissuto dei mesi con semplice pane e ricotta romana, ovvero con un piatto di spaghetti da quattro soldi, mangiato una sola volta al giorno. Ebbene, malgrado ciò, eccomi qua con la mia fede intatta, pronto ad infilare ancora una volta la via crucis per il trionfo delle mie idee immortali. 

«In questi otto anni ho portato la mia parola da un canto all'altro d'Italia; dappertutto mi sono fatto degli amici; forse anche degli avversari: nemici, no. Nemici no, perché (e non è una virtù) la mia anima è incapace di odiare. Ovvero io odio il male in se stesso e non nelle persone che lo compiono. E se combatto un avversario, anche con asprezza e rudezza, lo faccio per guarirlo dal suo male morale, e non per il gusto di vederlo avvilito e vinto. Al di là della mia penna affilata quanto una spada, vi son sempre le mie braccia aperte pronte a stringere l'avversario che si pente e si ricrede.

«Le mie idee non mi procurano che prigione e povertà; ma se la prigione mi tempra per le battaglie dell'avvenire, se la prigione mi nutrisce l'anima e l'intelletto, la povertà mi riempie di orgoglio. Se avessi avuto anima da speculatore o se avessi per un solo attimo transatto con la mia coscienza ora avrei una posizione economica invidiabile; ma siccome io so, sento che un soldo illecitamente guadagnato costituirebbe per me un rimorso mortale e mi abbasserebbe talmente dinanzi a me stesso da uccidermi spiritualmente, così posso tranquillamente prevedere che la povertà sarà la compagna indivisibile della mia non lunga vita.

«I miei avversari da dieci anni a questa parte hanno avuto modo di far circolare sul mio conto ogni sorta di voci calunniose ed hanno intessuto maldicenze idiote. Io non ho mai sentito il bisogno di raccogliere tanto fango, che la verità s'è fatta sempre strada naturalmente ed i galantuomini han fatto per proprio conto giustizia sommaria di certe bassezze. Ho anch'io i miei difetti — chi non ne ha ? — ma gli sforzi che da tanti anni compio per detergere l'anima mia da ogni impurità e per rendermi degno della missione che il destino mi ha affidato, hanno raggiunto il risultato di far di me un uomo che può andare in giro per il mondo senza correre il pericolo di arrossire e chinare la fronte dinanzi a chicchessia».


IL CONCETTO DELLA VITA


In un'altra lettera, pure scritta dal fronte, tornava a ripetere il concetto morale cui aveva sempre ispirato la sua vita con queste parole:

«Ho amato le mie idee più di una madre, più di qualsiasi amante cara, più della vita. «Le ho servite sempre ardentemente, devotamente, poveramente. Che anche la povertà ho amato, come San Francesco d'Assisi e Fra Jacopone, convinto che il disprezzo delle ricchezze sia il migliore ed il più temprato degli usberghi per un rivoluzionario.
 
«Ho cercato sempre di adattare la mia vita ai dettami morali della mia dottrina: pur non essendovi riuscito, che la carne è fragile, ho l'orgoglio di asserire che il mio sforzo è stato sincero e costante. 

«Se il destino lo vorrà, morirò senza odiare nessuno — neanche gli austriaci -— e con un gran rimpianto: quello di non aver potuto dare tutta la somma delle mie energie, che sento ancora racchiuse in me, alla causa dei lavoratori; con una grande soddisfazione: di aver sempre obbedito ai voleri della mia coscienza».

Tanto basta —cred'io —per delineare la figura spirituale del rivoluzionario che si fece volontario della Patria nell'ora del pericolo.

La figura fisica di Filippo Corridoni non contrastava con la figura spirituale. Alto, snello, biondo, con grandi occhi chiari dolcissimi, roseo e sorridente anche nei momenti più tristi e tragici, egli esercitava un fascino singolare sulle persone che l'avvicinavano, come sulle folle che guidava alle più aspre battaglie, elevandole con l'esempio alla comprensione della bellezza ideale del sacrifizio che non chiede premio.

Persone e folle intuivano in lui una sincerità assoluta, una nobiltà d'anima senza ombre ne incrinature, un delicatissimo sentimento umano che l'esperienza amara non riusciva a diminuire; come le durezze di una vita di miseria e di dolori non riuscivano a vincere la freschezza giovanile del suo fisico, sul quale neppure le malattie sembravano aver potenza di lasciare tracce.

Alceste de Ambris - 1922
 
 Fonte

venerdì 24 marzo 2023

"Un’amara resa dei conti" di Ian Douglas Smith, il Presidente della Rhodesia

 


Autore originale del testo: Ian Douglas Smith

"Un’amara resa dei conti", di Ian Douglas Smith

Le memorie del Presidente della Rhodesia, Ian Douglas Smith.

“Voi rhodesiani siete più inglesi degli inglesi!”. Quanto spesso ho udito queste parole negli anni della guerra! Era un commento apprezzato da noi rhodesiani. Sarebbe ridicolo non considerarci britannici, dopo tutto, la nostra storia incomincia con il sogno di Rhodes di aprire una via fra il Capo ed il Cairo.

Nel 1889, Cecil John Rhodes, fondatore di un impero minerario, leader pieno di ispirazione, ricevette dalla Regina Vittoria l’incarico di dar vita alla Compagnia Britannica dell’Africa Australe, per esplorare e sfruttare le terre a nord del fiume Limpopo. Benedetto dal capo dei matabele, Lobengula, per verificare la presenza di risorse minerarie nelle terre a nord-est del Matabeleland, Rhodes inviò sul luogo Frank Johnson e duecentocinquanta giovani pionieri, su un treno, in un’audace avventura verso l’ignoto. La fondazione della polizia britannica sudafricana, a Kimberley, 1889, composta da cinquecento uomini, avvenne proprio per proteggere i pionieri in arrivo.
Il loro compito era piantare la Union Jack, issarla a Fort Tuli, Fort Victoria, Fort Salisbury. Stavano andando verso un paese senza mappe, regno di leoni, elefanti, bufali e rinoceronti, pericolosi serpenti e i matabele, i più agguerriti soldati dell’Africa, una tribù di zulù del Natal (Sudafrica) che si era spostata a nord a causa di un dissidio con il Re Shaka, avevano attraversato il Limpopo e colonizzato un paese disabitato.
Ma se il compito in questione era portare la bandiera della Regina non potevano esserci obiezioni, le loro coscienze erano determinate e chiare.
Le regioni orientali erano colonizzate da diverse tribù nomadi, in continuo movimento per soddisfare i loro bisogni. Al sud gli shangaans dal Mozambico e dal Transvaal (Sudafrica). Certamente si trattava di terre di nessuno, come Cecil Rhodes aveva confermato a Londra, sicchè nessuno potrebbe accusarlo di “invasione”.
La missione fu completata prima del previsto e, a parte qualche scaramuccia con i matabele, i problemi erano ragionevolmente prevedibili per una missione di pionieri. Tali problemi condussero alla breve guerra del 1893, con i matabele, i quali furono assoggettati. Le genti incontrate nell’area orientale, generalmente definiti shona, per tratti comuni fra i loro vari dialetti noti come lingua shona, erano amichevoli e diedero il benvenuto ai coloni appena arrivati. La frustrazione per la sconfitta mosse i matabele a una rivolta che coincise con la sfortunata missione rhodesiana contro il Transvaal, nel 1896, in un tentativo di colpire il governo boero di Paul Kruger. L’inquietudine prese anche gli shona e se i matabele furono rapidamente sottomessi e pacificati da Rhodes, gli shona richiesero più tempo per essere sconfitti.Una volta terminata la rivolta, nel 1897, regnò la pace. Infatti davvero la polizia non avrebbe mai fatto ricorso alla violenza fino al 1962, data in cui i nazionalisti africani iniziarono ad usare la violenza nella loro campagna per la conquista del potere.
Gradualmente i pionieri iniziarono a prendere possesso del territorio, cercando l’oro, che era la principale attrazione, e le terre buone per avviare la produzione di cibo. Fra loro c’erano mio zio George, che era arrivato dal Capo, nel 1894, e mio padre Jock Smith, che aveva raggiunto il fratello nel 1898. Non c’erano conflitti dal momento che i locali non sapevano nulla di estrazioni e anzi si interessavano ai lavori dell’uomo bianco. Infatti, erano felici di avere l’opportunità di lavorare e, per la prima volta nella loro vita, guadagnare denaro e praticare il commercio, qualcosa di cui non erano a conoscenza. La terra era ricca e non c’erano problemi per la coltivazione dei cereali, che pure offrivano altre occasioni di lavoro e commercio. Soprattutto perché gli indigeni adoperavano strumenti agricoli di legno, ben diversi da quelli di ferro utilizzati dai coloni, con i quali potevano coltivare solo terreni sabbiosi e poveri. I bianchi sapevano invece coltivare i terreni più ricchi.
Ovunque i coloni andassero, la prima cosa che facevano era piantare l’Union Jack. Questo faceva parte della scoperta di un nuovo mondo, qualcosa al quale gli inglesi rimasti in patria non hanno mai partecipato. Questi ultimi nemmeno hanno la minima idea dello spirito di patriottismo legato alla scoperta di nuove terre, in nome della corona e della patria. Questo era il genere di cose che motivava la fede e l’orgoglio patriottici. C’era un senso del dovere nel credere alla causa, crearla, rafforzarla, difenderla. Ripeto, uno stimolo che i britannici che non sono andati oltre mare non hanno mai esperito.
Senz’altro i pionieri furono uomini per natura vocati al rischio piuttosto che al rifugio offerto da una vita confortevole, nella sicurezza basata sul fatto di vivere in una società protetta dalle forze esterne. Quindi le nostre colonie furono fondate da persone con un forte carattere individuale, dotate dell’importante qualità di avere il coraggio delle proprie convinzioni: uomini in prima linea nel costruire l’Impero Britannico, il maggiore che il mondo abbia mai visto. La Gran Bretagna, una piccola isola ai margini dell’Europa, un minuscolo atomo che ha diffuso in tutto il globo la sua civiltà cristiana e occidentale, portando ovunque l’idea di libertà, giustizia, educazione, salute e igiene. Proprio qui, nel cuore dell’Africa, il continente nero, i discendenti dei britannici stavano ancora una volta portando la torcia della civiltà, in uno degli ultimi angoli del globo che ancora doveva conoscere la civiltà.
Ovviamente questo non era luogo per deboli di cuore, né per uomini senza dedizione o senza ispirazione, bensì per uomini convinti che anche qualora non fossero stati in missione per conto di Dio, senza dubbio quella era la seconda miglior cosa: essere in missione per la Regina e per la diffusione della civiltà britannica.
Allora non ci sorprende se i figli di costoro erano più britannici dei britannici. Questo era quello per cui siamo stati cresciuti ed educati a vivere. Quando si passava sotto una bandiera britannica (e ce n’erano su tutti gli edifici), la si guardava e ammirava. Ogni occasione formale iniziava con l’inno nazionale, God Save the King, tutti in piedi sull’attenti, non volava una mosca.
Legge e ordine nella società, disciplina a scuola, lavorare per lo stesso scopo, non si poteva abbandonare la squadra, e alla fine per essa poteva anche essere necessario offrire la vita. Tali erano le condizioni sotto le quali dovevi vivere, alle quali, come membro dell’Impero, avevi il privilegio di sottostare.
Ad ogni modo c’era una interessante anomalia, dal momento che noi non siamo mai stati governati direttamente da Londra, non siamo mai rientrati nella categoria di colonia. Noi eravamo governati dalla Compagnia creata da Rhodes, con l’appoggio e l’incoraggiamento del governo britannico, per fondare insediamenti a nord del Limpopo, a est del Botswana (Bechuanaland allora), a sud dello Zambesi.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel 1918, la Rhodesia era un paese propsero e in via di sviluppo in tutte le sfere della vita e i suoi abitanti stavano sviluppando affari, per governarsi autonomamente. La performance rhodesiana fu esemplare. L’economia ben condotta, lo sviluppo ben pianificato e il progresso avanzava. C’era armonia nelle relazioni fra le diverse razze e i rhodesiani avevano dato un contributo nella guerra che non era secondo a nessuno. Con un tale successo Londra non poteva far altro che benedire l’auto-governo. I rhodesiani furono posti davanti al bivio, se essere incorporati come quinto stato nell’Unione Sudafricana o ricevere lo status di “governo responsabile”, un “semi-dominion”. I rhodesiani si convinsero che una simile costituzione avrebbe dato loro i benefici di un dominion vero e proprio, con la garanzia della protezione britannica negli affari esteri nel resto del mondo, onere altrimenti insostenibile da un paese tanto piccolo.
La decisione fu messa a referendum nel 1922. Malgrado l’intervento personale del generale Jan Smuts, in seguito primo ministro del Sudafrica, che visitò il paese facendo numerosi incontri, facendo uso della sua grande saggezza e del suo personale fascino, nello sforzo di convincere i rhodesiani ad aderire all’Unione, i rhodesiani votarono nella misura di 2 a 1 per il “governo responsabile”. Votarono con il cuore, non con la testa. Il Sudafrica era pieno di non-britannici (se non anti-britannici): gli afrikaners, e i rhodesiani non erano preparati ad accettare un simile cambiamento nel loro carattere nazionale. Smuts era una mosca bianca, ma gli altri afrikaners? Era meglio mantenerli come alleati, come sempre, ma difendere la nostra identità britannica, la fedeltà della Rhodesia non era negoziabile.
È facile parlare oggi con il senno di poi, ma chiaramente i rhodesiani fecero una scelta errata. I vantaggi pratici ed economici di aderire all’Unione Sudafricana, a quel tempo, avrebbero materializzato e persino superato le aspettative. Con i vantaggi derivanti dal far parte di una economia più vasta e diversificata, dall’avere l’accesso ai porti (la Rhodesia non ha sbocchi sul mare), dal procedere all’eliminazione delle dogane, pur rimanendo nel Commonwealth, dal momento che a quel tempo il Sudafrica ne faceva ancora parte, le cose sarebbero solo potute migliorare.

La Corsica e i partigiani. Ian Smith a Moretti, con Mingo.

In Corsica facevamo parte di un gruppo americano e, quando non scortavamo i bombardieri nelle loro missioni giornaliere, le nostre operazioni consistevano principalmente in raid su treni fermi e sul trasporto pesante. Siccome si notava l’assenza di aerei tedeschi, un altro sport era scovarli. Volavamo spesso sopra la Torre di Pisa e in una occasione volai basso e le feci un giro intorno per avere una vista migliore, forse qualcuno si sarà allarmato.
Eravamo su posizioni più avanzate verso settentrione rispetto ai nostri che avanzavano sulla penisola e quindi eravamo nelle condizioni di colpire obiettivi più interni, oltre la linea del fronte. Mi ricordo l’arrivo allo squadrone di un giovane rhodesiano, Jack Malloch, che era stato abbattuto, durante un raid, poco prima della fine della guerra. Tornò in Rhodesia e fondò la sua compagnia aerea, che dal 1965 diventò una delle armi nella nostra operazione di resistenza alle sanzioni. Alla metà degli anni ’70, ottenne dalla nostra forza aerea un MK 22 Spitfire che era stato a riposo dal 1954. Attraverso i suoi contatti in tutto il mondo trovò i pezzi di ricambio necessari, lo riportò alla sua antica gloria e volò di nuovo, il 29 marzo 1980. In molte occasioni successive i rhodesiani parlavano di questo spettacolo, il più bell’aereo mai fatto volare nei cieli sopra di loro. Tragicamente, il 26 marzo 1982, Jack ed il suo amato Spitfire scomparvero in un’inaspettata e violentissima tempesta.
Una nota nel suo diario ricorda per il 9 giugno 1944: un grande giorno, sei dei nostri hanno abbattuto 15 caccia e ne hanno danneggiati 14, Ian Smith comandava la spedizione.
Erano tempi stimolanti e pochi giorni trascorrevano senza simili eventi. Una mattina, un mese più tardi circa, stavo volando sul Po, per bombardare una linea ferroviaria importante. Colpivamo depositi di munizioni e carburante. Vidi andare a segno le bombe e salire colonne di fumo nero. Poi commisi l’errore dal quale avevo spesso messo altri in guardia: tornai sui miei passi. Non c’era segno di resistenza, ma era normale, con l’effetto sorpresa, al nostro primo attacco. Diverso è tornare sul luogo del delitto. I miei colpi erano andati a segno e peccai di eccesso di confidenza in me stesso e compiacenza e rivedere quello che avevo fatto era per me invitante. Comunicai ai compagni di guardarmi le spalle mentre io sarei tornato ad attaccare un’altra linea di vagoni merci. Appena mi lanciai in picchiata avvertii un colpo che scosse violentemente il mio aereo, quindi virai verso la costa e la base, dicendo al mio numero due di seguirmi e agli altri di proseguire nell’operazione.
Notai che il motore era partito, provai a riguadagnare quota. Se avessi potuto superare la costa anche di poche miglia, avrei avuto buone possibilità di essere recuperato dai nostri. I nostri soccorsi pattugliavano costantemente il tratto fra Corsica e Liguria e sarebbero stati in grado di ricevere il mio mayday. Comunque questo non successe. La temperatura era schizzata e io sentivo il calore salire. Il mio secondo, Alan Douglas, mi avvertì prima dell’uscita di fumo nero dal mio velivolo, poi di fiamme. Realizzai il pericolo, siccome il fuoco raggiungeva il serbatoio e l’intero aeroplano sarebbe esploso. C’era soltanto una risposta. Mi paracadutai fuori, anche se avrei preferito essere più alto per compiere questa operazione.
Tirai la corda immediatamente, ma il paracadute non si aprì prima che andassi a sbattere contro una montagna e rotolassi giù, fermandomi in un cespuglio. Il mio primo pensiero fu allontanarmi a tutti i costi il più possibile dal punto della caduta, nel caso qualcuno mi avesse avvistato. Scoprii un bosco dove rifugiarmi. Cercai di riprendere fiato e scrutare la zona, realizzando che quello era tanto ovviamente il posto migliore dove nascondermi che sarebbe stato il primo ad attrarre l’attenzione se qualcuno si fosse messo sulle mie tracce. Quindi risalii la montagna fino a trovare un altro bosco meno evidente. Mi svestii perché il sole era molto caldo e mi misi ad aspettare.
Presto un uomo in abiti civili apparve sul luogo della mia caduta e provò ad attrarre la mia attenzione. Io stavo nascosto, giù a terra, ignorando se fosse un’offerta generosa o una trappola. Più tardi un ragazzo con il suo gregge di pecore mi passò accanto, senza notarmi.
Tutto fu calmo fino a quando, un’ora dopo, un plotone di tedeschi, con un cane segugio, fece la sua apparizione. Fortunatamente non avevano visto il paracadute e dato che le pecore erano passate dove ero passato io, non vi erano tracce olfattive per il segugio. Urlarono e con evidente frustrazione se ne andarono via.
Dopo il tramonto, l’aria divenne più fredda. Ci avevano detto che la grande maggioranza dei locali era amichevole e realizzando che avrei dovuto cercare l’aiuto di qualcuno, non attesi oltre. Quando il giovane pastore tornò con le sue pecore, emersi dal mio nascondiglio e lo approcciai. Non si scompose e mi accompagnò lungo un sentiero impervio fra le montagne, fino a quando vedemmo una casa in fondo alla valle sotto di noi, dalla quale potevamo udire colpi di taglialegna. Adoperando il linguaggio dei segni, mi fece capire di sedermi ed aspettarlo. Dopo poco tornò con il suo fratello maggiore, un ragazzone molto simpatico, e mi condussero alla casa. Fui presentato alla madre, una donna ben piantata, con un sorriso accogliente, e al suo terzo figlio. Poi fui portato in camera da letto e mi presentarono il padre, ovviamente un omino. Seguì un buon pasto a base di minestrone e pane e trascorsi una notte inaspettatamente confortevole.
La mattina seguente la madre mi condusse mezzo miglio da là, in una piccola spelonca nella montagna. La sua spiegazione chiarì che era una misura precauzionale nei confronti dei tedeschi. Fu saggia, perché nei giorni seguenti i tedeschi tornarono a interrogarla e perquisire la casa più di una volta. Mi lasciò una coperta che fu la mia casa per alcuni giorni. Veniva due volte al giorno a portarmi i viveri, nascosti sotto uno strato di castagne per dissimulare.
Una volta persuasi i tedeschi, potei vivere, con qualche precauzione, una vita ragionevolmente normale presso di loro. I partigiani locali avevano un efficiente sistema di comunicazione nel caso i tedeschi fossero arrivati. Inoltre noi ci trovavamo in Vallescura, un nome perfetto per un luogo appartato dal resto del mondo. Mi mantenni in salute con lunghe passeggiate e arrampicate alla ricerca di castagne e funghi, facendo esercizio fisico ogni giorno, tagliando la legna per il fuoco e il pane. I miei ospiti pensavano che io mi sentissi in obbligo di fare ciò, per ricompensarli, ma spero di essere riuscito a convincerli del contrario. La mia famiglia adottiva, Zunino, esagerava nel procurarmi ogni comodità possibile e, anche considerando che si trattava di una famiglia povera, certamente questo mi commuoveva.
Una delle mie principali preoccupazioni fu imparare l’italiano, fondamentale per riuscire a tornare dai miei, attraversando le linee nemiche, qualcosa che continuamente pensavo. Fortunatamente un capitano inglese, Davis, che si trovava nel villaggio vicino, Olba, mi trovò. Era un fuggiasco da un vicino campo di prigionia. Era stato curato e ospitato da Gianni e Nina Pesce, nella casa dove erano scappati, abbandonando Genova. Erano una bella coppia, con forti sentimenti filobritannici e antinazisti, e feci loro spesso visita, nella loro amabile casetta. Furono felici di fornirmi un dizionario inglese-italiano e le Opere complete di Shakespeare. Non potevo pretendere nulla di meglio. Quando potevo andavo a lezione di italiano di base da loro.
Dopo un mese circa, mi raggiunse il comandante di una divisione partigiana locale, un personaggio carismatico con una barba affascinante e un fucile automatico sotto il braccio, una bandoliere di proiettili e una serie di granate intorno alla cintura. Venne a verificare il mio stato di salute e a chiedermi se poteva fare qualcosa per me. Aveva un inglese sufficiente per comunicare. Dopo una discussione fu deciso che lo avrei accompagnato al suo quartier generale e ricevetti la sua parola d’onore che mi avrebbe aiutato a tornare dagli Alleati.
Il mio grado? Capitano, replicai. Dichiarò che mi avrebbe promosso al grado di maggiore e da quel momento fui presentato a tutti come “il maggiore pilota inglese”. La più rapida promozione da me mai ricevuta e presto capii che la promozione aveva l’effetto di innalzare il prestigio del mio comandante. Dopo tutto nessuno poteva vantare di avere un pilota inglese, per di più maggiore.
Fu interessante partecipare alle loro discussioni e pianificazioni. Avevamo tutti buon cibo e buon vino, vestiti presi ai nemici sorpresi nelle imboscate, un barbiere e qualche volta una vecchia Fiat per spostarci.
Eravamo di base a Moretti. Abitavo presso il dottor Prando e la sua meravigliosa famiglia, nella loro splendida residenza, dove il medico si era ritirato dal lavoro, che praticava a Genova. C’era un secondo reggimento nel villaggio sotto il comandante Mingo, un uomo fuori dal comune, ingegnere dell’esercito italiano prima di andare a unirsi alla resistenza. Invece di caricare una pistola, camminava con la sola protezione di una dozzina di granate alla cintura.
Ai margini del villaggio c’era una tenuta magnifica, di un uomo attivo nel commercio di uova e pollame, che aveva ovviamente fatto tanti soldi. A vivere con lui un colonnello che era stato congedato dall’esercito per problemi cardiaci. Secondo Mingo, il colonnello era un uomo brillante, il più giovane colonnello in Italia. Anche lui si era unito alla resistenza, non attivamente, ma dando supporto morale e consigli. Mingo ed io spesso conversavamo insieme di molte cose e giocavamo a bridge.
Tristemente, c’erano giorni in cui qualcuno cadeva sul campo, ma non spesso. Tragicamente, durante un fine settimana, mentre ero dai Pesce, i tedeschi attaccarono Moretti in forze. Invece di dileguarsi, Mingo decise di rimanere ad affrontarli. Lanciò le sue granate colpendo tre tedeschi, ma una volta finite le sue granate non potè fare nient’altro. Fu ucciso. I tedeschi permisero alla popolazione di dargli degna sepoltura. La casa dell’allevatore di polli fu bruciata e rasa al suolo, senz’altro avevano ricevuto notizie sul suo operato. I partigiani locali ebbero la “consolazione” di sapere che erano stati colpiti così duramente per i loro numerosi successi. Il risultato fu che i partigiani raddoppiarono i loro sforzi e i tedeschi dovettero abbandonare Sassello.
Subito dopo, per le strade del paesino, fu messa in piedi dai locali, una vera e propria parata per la vittoria, con musica, festoni e bandiere. Il giorno dopo Nino ed alcuni altri entrarono nella mia camera e mi svegliarono dicendo: “Maggiore, maggiore, avanti, abbiamo fatto il roast beef per lei!”. Spesso mi avevano promesso di prepararmi quello che secondo loro era il piatto preferito di ogni inglese: il roast beef. Quel giorno era arrivato, ma fecero un roast beef con una piccola variazione: un locale aveva ucciso il suo maiale per celebrare il trionfante arrivo degli Alleati. E quando in Italia c’è carne in tavola il vino non può mancare, percui fu una gran giornata!
Regolarmente tentavo di riproporre la questione del mio ritorno, ma incontravo sempre una forte opposizione: avevo bisogno di migliorare nella lingua; mi vedevano così: un ufficiale inglese, alto, chiaro, con i baffi, per me muovermi sarebbe a loro dire stato “pericolosissimo”. Ho vissuto con loro tre mesi, senza dubbio i tre mesi più interessanti della mia vita, ma la neve incominciava a cadere e non avrei voluto passare lontano dai miei compagni altri sei mesi, dissi loro che nella settimana me ne sarei dovuto andare. Quando compresero che la mia decisione era irrevocabile, la accettarono con filosofia e mi diedero tutto l’aiuto possibile, come diverse lettere di presentazione, da mostrare ad altri gruppi partigiani.
Decisi di andare a ovest, verso la Francia. Loro approvarono. Un soldato britannico, conosciuto come Bill, mi chiese se poteva accompagnarmi. Dopo tre giorni, altri tre uomini, un francese, un austriaco e un polacco, che vivevano in un accampamento partigiano nel quale ci imbattemmo, ci chiesero di unirsi a noi. Ci davano cibo, rifugio e indicazioni ovunque, raramente ci mandavano via, per paura delle rappresaglie tedesche.
Un giorno incontrammo un comandante partigiano con un pugno di uomini. Ci invitò a passare la notte con loro, sulle montagne, da dove controllavano una vasta area. Disse che spesso sua moglie aveva espresso il desiderio di conoscere un ufficiale inglese, quindi era stata una bella sorpresa per lei.
Era una bella donna, alta e magra, lunghi capelli neri ma gli occhi blu e le guance rosee. Vivevano in un piccolo villaggio, con mucche, pecore, vigna e orto. Ci offrirono un trattamento cinque stelle: buoni letti e ottimo cibo, carne, burro, formaggio e verdura fresca. Sorseggiando vino, conversammo a lungo sotto le stelle.
Il giorno seguente, un giovane medico degli Alpini, ci scortò come guida. Non era solo un esperto di montagna, ma come ci avvicinammo al confine con la Francia mostrò di sapere diverse cose sull’area. Era un piacevole e coltissimo compagno. La mattina successiva si divise da noi per tornare dai suoi, essendo l’unico medico della zona. Inoltre era un uomo noto ai tedeschi e noi stavamo per entrare nella tana del lupo. Ma non ci lasciò prima di darci preziose indicazioni per filo e per segno per i successivi due giorni di cammino necessari, consigliandoci anche di dividerci in due gruppi, per dare meno nell’occhio. Bill ed io ci saremmo incamminati, gli altri tre ci avrebbero seguito il giorno dopo, noi li avremmo aspettati oltre la zona di rischio.
Avevo portato con me il piccolo pacchetto di pronto soccorso, incorporato nella divisa di ogni pilota britannico, con una siringa, una fiala di morfina, bende e alcune medicine. Lo regalai al dottore, dicendogli che ne avrebbe certamente avuto più bisogno di me. Mi ringraziò e dopo un caloroso abbraccio, ci dividemmo.

La premiership nel 1964.

Non passò molto tempo prima che il governo britannico reagisse al cambio di leadership in Rhodesia. Ci furono espressioni allarmate in merito alla vittoria degli “estremisti” e cominciò una propaganda al solo scopo di dimostrare questo, mettendo in guardia il resto del mondo dell’incombente azione irresponsabile, secondo la loro versione. Al contrario, era stata chiaramente mia premura tentare ogni azione per raggiungere un accordo con Londra. Ovviamente questa era la nostra prima intenzione, con l’alternativa della dichiarazione unilaterale di indipendenza, come ultima spiaggia, solo in caso ogni trattativa fosse fallita. Avrei potuto essere personalmente soddisfatto solo quando non ci fossero più state altre alternative. L’assemblea di partito (*il Fronte Rhodesiano, composto di fuoriusciti dal partito liberale) mi sostenne come candidato contro un uomo, ostile all’opinione pubblica, che era stato portato in auge dai liberali dell’ala di sinistra di Londra. Non ci fu nulla di impetuoso o viziato nel processo democratico interno al partito.
La prima cosa per me da fare fu mettermi in contatto diretto con Londra per vedere se fosse possibile spuntarla laddove Field (il precedente premier rhodesiano) aveva fallito. I britannici stavano gradualmente recependo che questo era qualcosa di più che un normale cambio di premier. Il carattere della scena storica era completamente mutato. Per la prima volta nella storia, la Rhodesia aveva un premier nato sul suo suolo, qualcuno il cui retroterra non era in Europa, ma in Africa, in altre parole, un bianco africano. Diversamente dai suoi predecessori, i quali quando parlavano di “tornare a casa” pensavano alla Gran Bretagna, la sua casa era invece la Rhodesia. Ciò era qualcosa di inedito e i nostri informatori ci fecero sapere che la nuova situazione veniva guardata con una certa apprensione nella madrepatria.
Da parte mia l’ultima cosa che volessi fare era dare un’impressione di inflessibilità o irragionevolezza. Tuttavia credevo fosse sbagliato prendersi in giro o far credere ai britannici che ci fosse la possibilità che noi avremmo accettato una soluzione che non fosse nei nostri interessi. Ogni tentativo di usarci come pedina nello scacchiere internazionale, per accontentare gli altri stati africani e i loro sodali, era per noi inaccettabile. Avremmo accettato solo una soluzione nel più ampio interesse di tutti i rhodesiani, neri e bianchi. Come poteva non capirci chiunque avesse un minimo di apertura mentale? Ad ogni modo era il momento di un chiaro segnale: era finito il tempo degli indugi. C’era stata più di una prevaricazione nei nostri confronti e noi esigevamo di sapere dove fossimo. Non solo mi diede soddisfazione sapere che l’assemblea di partito mi aveva dato pieno sostegno, ma sapevo anche che ciò era in sintonia con il 90% dei rhodesiani, i quali erano convinti della giustizia della loro posizione. Erano nauseati e stanchi del doppiogiochismo politicante.
Inviai un messaggio ad Alec Home, suggerendo che andassimo avanti con le nostre trattative, riconfermando il nostro indirizzo verso l’indipendenza, basato sulla nuova costituzione del 1961, recentemente firmata in accordo con il governo britannico. Questa era stata venduta all’elettorato rhodesiano come base futura per un eventuale scioglimento della Federazione. Per i rhodesiani non era l’ideale ma in cambio erano pronti a un compromesso. Oltretutto, come il mio predecessore aveva enfatizzato, la nostra partecipazione alla conferenza alle Cascate Vittoria, era vincolata al principio, accettato da Londra, della legittimità di una nostra domanda di indipendenza sulla base di quella costituzione. Se invece i britannici non erano pronti ora a mantenere i patti avremmo voluto saperne le ragioni. Nella risposta avevano ancora una volta equivocato: avremmo noi fatto una mossa per dare ai nostri neri una maggiore rappresentanza in parlamento? Ma era esattamente quanto avevamo già fatto con la costituzione firmata due anni prima. Il governo britannico aveva concorso alla sua stesura e ratificazione. Avrebbe ora desiderato tornare sui suoi passi?
Pianificammo un viaggio delle delegazioni dei consigli tribali per visitare alcuni paesi e dire la verità sui fatti. Ventinove capi partirono il 1 giugno per l’India, il Pakistan, l’Europa e la Gran Bretagna. Furono grati di essere ricevuti dal papa a Roma ma furono risentiti che nessuno li avesse ricevuti a Londra. I capi erano gli autentici rappresentanti dei nostri neri, ma erano allora osteggiati da politici che avrebbero voluto un sistema che avrebbe negato loro ogni rappresentatività. I capi erano particolarmente preoccupati del fatto che quei politici stavano corrompendo ed intimidendo i loro popoli per aizzarli contro di loro.
Negli anni dopo gli scontri del 1893 e 1896-97 si era creato un forte legame fra i capi tribali e il governo rhodesiano, c’erano un mutuo rispetto ed una reciproca fiducia. Prima dell’arrivo dell’uomo bianco i capi erano stati autonomi nelle loro rispettive aree e le divergenze venivano sempre risolte pacificamente. Solo lo scontro fra i matabele e gli shona era stato davvero violento. I matabele, provenienti dalla tribù guerriera degli zulù, erano i più aggressivi e disciplinati e negli anni si erano estesi a est, rubando spazio agli shona. Fu l’arrivo dei pionieri a salvare i pacifici shona, nel 1890.
Nel giugno del 1893, ci furono denunce di incursioni matabele, nell’area di Fort Victoria, erano stati uccisi diversi uomini shona, rapite varie donne e rubate molte mucche. Era il punto più a est dove si fossero fino ad allora spinti i matabele e le autorità di Salisbury conclusero che il fatto non poteva essere tollerato, fu organizzato un contingente per dare seguito effettivo alla deliberazione. Ci fu qualche scontro una volta che la forza penetrò nel Matabeleland, ma non ci furono problemi ad arrivare fino a Bulawayo e ristabilire l’ordine e la legge.
Purtroppo ci fu un tragico evento connesso a questa operazione, che da solo si guadagnò una pagina memorabile nella storia rhodesiana. Il maggiore Alan Wilson e la sua pattuglia si trovavano sul fianco destro del contingente ed incorsero in un gruppo agguerrito di matabele. Diluviava e quando giunsero al fiume Shangani questo stava straripando, impedendo loro di proseguire. Si difesero valorosamente e riuscirono ad uccidere molti nemici, ma con la pioggia non poteva esserci via di scampo e finirono le munizioni. Inviarono un paio di cavalieri per chiedere rinforzi dalla colonna principale, ma quando questi arrivarono era troppo tardi. La maggior parte degli uomini di Wilson avrebbe potuto salvarsi, ma essi non vollero abbandonare i compagni feriti e rimasero con loro fino alla fine. Sulla famosa cima Vista sul mondo, nelle Montagne Matopo, si trovano la tomba di Cecil Rhodes e lo splendido memoriale ad Alan Wilson ed ai suoi uomini, con un’iscrizione che informa del fatto che non ci furono sopravvissuti. Gli stessi guerrieri matabele che combatterono contro di loro li onorarono dicendo che quelli erano uomini come i loro padri.
L’episodio porta alla luce un’anomalìa. Buona parte delle critiche all’uomo bianco e alla sua vicenda in Rhodesia viene da politici shona, opposti ai matabele. Chiaramente se l’uomo bianco non fosse arrivato i matabele si sarebbero estesi fino al punto di spingere gli shona in Mozambico o peggio.
Gradualmente, una volta che la pace fu restaurata, le attività dei capi furono coordinate, a livello provinciale, con consigli tribali provinciali, e sopra tutti un consiglio nazionale dei capi. Quando divenni premier, il capo del consiglio nazionale era un matabele, Umzimuni, un uomo imponente, un metro e novanta per centoventi chili. Purtroppo morì per problemi cardiaci, gli successe uno shona, Chirau, un uomo forte ma impreparato a sopportare il crollo dei principi nei quali credeva, dopo il 1980. Morì poco dopo l’elezione di Mugabe, per “cause naturali” a dire del governo, ma la sua famiglia e i suoi amici mi assicurarono che le cause erano state molto poco naturali. Un aggravante fu che Robert Mugabe, nuovo premier, era nato e cresciuto nel paese di Chirau e come tale, tradizionalmente, avrebbe dovuto un particolare rispetto a Chirau. Ovviamente era tutto normale, chi aveva conquistato il potere con le armi non poteva che governare con gli stessi metodi.
Pochi mesi dopo la mia elezione, chiesi al ministro degli Affari indigeni di farmi partecipare a un incontro nazionale dei capi, per manifestare loro il mio rispetto e la mia partecipazione ed attenzione alle loro questioni. Fu d’accordo. Il giorno seguente venne da me in compagnia di un impiegato del ministero, uno dei molti impiegati governativi rhodesiani che avevano dedicato la loro vita allo studio e alla comprensione delle persone con le quali lavoravano, imparando la loro cultura e le loro tradizioni. Mi diede una lezione piena di tatto e profonda passione verso il loro sistema, la tradizione, il rispetto e la dignità legati ad esso. Il suo consiglio fu di non andare di mia iniziativa ma di attendere un invito dei capi, omaggiando la loro autorità. Fui d’accordo. Propose che lui avrebbe manifestato la mia idea durante un suo incontro con i capi, sicuro che avrebbero reagito favorevolmente. Il piano funzionò e fui invitato ad una delle loro riunioni. Mi impressionarono l’efficienza e la dignità del ruolo del presidente del consiglio Umzimuni, sullo scranno, e gli altri membri, compreso il ministro, seduti intorno deferenti verso la sua autorità. Ciò dà un’idea della bugia propagata dai nazionalisti africani e dai loro collaboratori marxisti-leninisti. Infatti i capi erano democraticamente eletti a vita in base al loro sistema locale e noi non abbiamo mai interferito nel loro sistema. Certo ci sono stati casi nei quali il consiglio nazionale dei capi, non il governo, ha sospeso democraticamente qualche capo che aveva trasgredito un codice di condotta condiviso.
Non vi erano scuse per il rifiuto di Alec Home, di dare udienza ai capi, durante la loro visita in Gran Bretagna. Certamente egli pendeva dalle labbra dei politicanti che stavano minando le basi del sistema tribale dei capi. Il risentimento di questi ultimi fu pienamente giustificato. Il risultato fu che la loro sfiducia nel governo britannico crebbe, insieme alla speranza di poter lavorare a fianco di un governo rhodesiano indipendente.
All’inizio di giugno ricevetti anche il messaggio dal governo britannico che, contrariamente a quanto avvenuto dal 1931 (dall’istituzione del ruolo di premier in Rhodesia), non sarei stato invitato alla conferenza dei premier del Commonwealth. Chiaramente i britannici subivano l’influenza dei leader africanisti dentro al Commonwealth. Fu un ulteriore nauseante esempio della politica britannica dei due pesi e delle due misure, con la quale dovevamo costantemente confrontarci. Espressi pubblicamente il mio risentimento dicendo:

Non siamo esclusi poiché non siamo più fedeli alla Corona e agli ideali con i quali il Commonwealth fu fondato. Siamo esclusi poiché il Commonwealth si è esaurito da solo e non c’è più posto per noi, nell’accozzaglia di staterelli che hanno recentemente ricevuto l’indipendenza e sono stati ammessi al Commonwealth senza considerare la loro adesione agli ideali e al concetto sui quali esso è fondato. Mi domando se siamo davvero ancora voluti all’interno del Commonwealth e quale contributo potremmo dare rimanendovi inclusi?

Ho immenso rispetto, ammirazione e lealtà verso la Regina, ma ella non è più la Regina che conoscevamo. Non ha più libertà di parola. Ella non è più altro che la garante della partitocrazia e non può parlare con la sua testa e il suo cuore. Anche qualora avessero mai vinto i comunisti, ella avrebbe avuto da nascondere i suoi sentimenti.
Comunque non mi potevo permettere di fallire nel trovare un accordo. Scrissi ad Alec Home, riproponendo i punti sui quali esigevo un chiarimento, a proposito della sua negazione del diritto costituzionale all’indipendenza. (…) Ciascuno di noi sapeva per esperienza che quando qualcuno avesse detto una singola parola dissonante con il loro modo di vedere ed interpretare le cose, si sarebbe trovato, la mattina seguente, alla porta, qualche tizio dei servizi segreti a chiedergliene conto. La triste verità era che loro sapevano perfettamente che se avessero parlato chiaramente in merito alle loro reali intenzioni prima del 1961, al referendum sulla costituzione i rhodesiani avrebbero votato NO. Personalmente fui uno dei maggiori oppositori della loro proposta di costituzione e feci campagna per il NO, non c’è dubbio che il fronte del NO perse per il semplice fatto che i rhodesiani credettero che, malgrado le imperfezioni contenute nella costituzione, il più importante principio era assicurarci l’indipendenza nel caso di una dissoluzione della Federazione, come a quello stato delle cose nel continente pareva ovvia e fu pertanto il fattore determinante nel voto. Ma i burocrati britannici, specialmente quelli nelle sfere più alte, vengono presi da liste di laureati in aspettativa ed educati nell’arte diplomatica del decifrare simili problemi e trarre ogni cosa a loro vantaggio. In questo caso la risposta era ovvia: questa era la perfida Albione al suo meglio.
L’ovvio metodo britannico per evitare la corrispondenza più imbarazzante, era per me recarmi direttamente a Londra, tanto più che li avevo invitati ad esplicitare i loro reali propositi. Propositi che avrei certamente reso pubblici. Seppi da Londra che sarebbe stato preferibile attendere la conferenza dei premier e poi avrei avuto via libera a un incontro con Home.
La conferenza, a quanto seppi, fu una bagarre, con Home intento a fare il possibile per salvare capra e cavoli, spalleggiato solo da Menzies (Australia) e sir Keith Holyoake (Nuova Zelanda). Gli asiatici non espressero entusiasmo, mentre i premier africani, sostenuti dal Canada, peccarono al solito di eccesso. Protestai perché si parlò di Rhodesia, alle nostre spalle, ma trattai la loro arroganza con il contegno che meritava.
In vista delle elezioni in Gran Bretagna, previste entro l’anno, probabilmente in ottobre, pensai fosse il caso di posticipare la mia visita fino a che non si fosse insediato il nuovo governo. D’altra parte pensai sarebbe potuto essere vantaggioso attrarre le simpatie dei tories, nel caso il Labour avesse vinto, colsi l’opportunità di incontrare nel frattempo Antonio de Oliveira Salazar, in Portogallo.
Partimmo per il Portogallo il 2 settembre. Era uno di quei paesi dal fascino antico, con ben poco dei fasti della modernità. La vita era semplice, con persone più rispettose nei confronti della natura, della vita in famiglia, con fede nell’onestà e nella propria storia e cultura. Erano orgogliosi dei traguardi raggiunti: moderni cantieri navali, un’efficiente industria del pesce, industrie di vetro e marmo che producevano capolavori, alcuni dei migliori vini del mondo ed alti standard di agricoltura. Poi l’Algarve, con le sue incantevoli spiagge linde e strutture balneari moderne, più simili a quelle inglesi, uno dei posti preferiti per pensionati e villeggianti britannici.
Salazar fu uno degli uomini più notevoli da me incontrati. Se ne parlava come dittatore del Portogallo ma ciò era lontano dalla realtà. Un uomo pacifico, dimesso, un docente universitario che aveva ricevuto il mandato di mettere in pratica la sua filosofia per risolvere i problemi del paese. Riuscì talmente nel compito da trovarsi sempre più coinvolto nella politica portoghese fino ad essere spinto ad accettare la posizione di presidente. Viveva in una casa modesta, con una sola guardia del corpo a controllare l’entrata. Un segretario mi accolse e condusse al suo ufficio, che era confortevole e sobrio. Mi piacque, poiché mi rammentò il mio ufficio, che di solito la gente riteneva inadeguato a un premier. I suoi occhi erano di un blu limpido, aveva capelli grigi e naso aquilino. Il suo volto manifestava il suo carattere e parlava in tono quieto e misurato. Le sue azioni erano cariche di dignità ed ogni cosa intorno a lui dava l’idea della sua sobrietà, la caratteristica che rappresenta forse l’ingrediente più prezioso in un uomo di cultura.
Avevamo molto di cui parlare, siccome avevamo molto in comune: la nostra consapevolezza del piano russo per dominare il mondo e della penetrazione russa nel continente africano. Ancor più insidiose le loro mosse in Medio Oriente e Sud America. Di fronte a questo problema Salazar era attonito per la immobilità delle maggiori potenze del mondo libero. Dimostrò particolare apprensione per la Rhodesia, assicurando che il Portogallo avrebbe perseverato nella sua politica di evoluzione in Mozambico ed Angola, progettando di permettere ai locali di accedere a ruoli di rilievo solo quando si fossero dimostrati pronti. Era d’altra parte evidente che la Gran Bretagna pendesse sempre di più dalle labbra dei premier africanisti del Commonwealth ed era ovvio che questi ultimi venivano manipolati come strumenti di potere dai russi. Era particolarmente infastidito dal fatto che, anche sapendo la verità, Londra lasciasse fare pur di cercare di salvare capra e cavoli. Le sue fonti accertavano questi fatti e fu ben felice di condividerle con me.
I portoghesi avevano appreso dall’esperienza che i governi britannici non erano sempre degni di fiducia. Pensavo che Londra sarebbe stata interessata al nostro punto di vista? Proseguii parlando delle nostre vicissitudini e dissi che sarebbe stato difficile per Londra rinnegare gli accordi presi con noi. Egli mi assicurò di aver meticolosamente seguito la nostra storia, per il nostro comune interesse nell’area, e a suo avviso non c’erano dubbi sulla correttezza della nostra causa. Era persuaso che quello che noi facevamo era nell’interesse della nostra popolazione nera, quanto di quella bianca. Poi, parlando con circospezione ed esitazione, mi domandò cosa pensavo di fare nel caso i britannici avessero perseverato nella loro intransigenza nei nostri confronti. Risposi che mi consideravo un uomo paziente, per natura ostile all’impeto, ma che se infine fossimo arrivati alla conclusione che nessuna negoziazione era più possibile, nel caso la Gran Bretagna non avesse avuto intenzione di onorare i suoi impegni, espressamente per il desiderio di accontentare gli africanisti, allora onestamente gli risposi che senza ulteriori indugi avremmo preso la situazione nelle nostre mani e avremmo dichiarato l’indipendenza.
Subito la sua faccia, seria ed impassibile, si illuminò, i suoi occhi e la sua bocca sorrisero. Non parlò, ma capii di averlo entusiasmato. Lentamente si alzò dalla sua sedia, venne verso di me e mi strinse calorosamente la mano per poi tornare a sedere. Disse che era colmo di felicità nel vedere un uomo che aveva il coraggio di porre gli interessi del suo paese davanti e che non avrebbe potuto fallire nel piano, da quello che aveva spiegato. Sfortunatamente era convinto che i britannici non avrebbero onorato i loro impegni con noi, con la conseguenza prospettata da me. Il Portogallo ci avrebbe fornito tutto quello di cui avessimo avuto bisogno, e secondo le sue fonti anche il Sudafrica. Mi disse che non sarebbe stato facile, ma conoscendo il calibro del mio popolo lui sarebbe stato soddisfatto di vederci vincere.
Trovai impressionanti la semplicità, sincerità e quieta determinazione di quell’uomo e quell’incontro rimarrà per sempre con me, come un’indimenticabile esperienza. Pensai che quell’uomo fosse di grande onestà e dedizione e che avrebbe mantenuto la parola. Purtroppo per noi, non era giovane e l’età ce lo portò via anzitempo. Fosse rimasto per una decina d’anni in più la Rhodesia sarebbe sopravvissuta.
Un’altra personalità fuori dal comune che incontrai a Lisbona, fu il ministro degli Esteri, Nogueira, che aveva un’incredibile dimestichezza con la scena geopolitica mondiale, applicandovi un’analisi ed un ragionamento con i quali assorbiva totalmente l’attenzione. Parlava inglese come fosse stata la sua lingua madre, ed era fluente in altre lingue. La moglie, cinese, parlava fluentemente ancora più lingue del marito. Non era solo molto intelligente, ma affascinante e bellissima.

La trattative a Downing Street ripresero lunedì 7 settembre. L’atmosfera era piacevole ed il tono costruttivo. Home apparve sinceramente interessato a raggiungere un accordo, ma in uno spazio ovviamente delineato dai premier del Commonwealth. Il tema era la nostra abilità di soddisfare il governo britannico sul fatto che le nostre proposte avessero il più ampio consenso delle persone di cui trattavano. Non ci furono problemi per noi, ancora una volta evidenziai il nostro piano. Avremmo tenuto un referendum rivolto a tutti gli aventi diritto di voto. Sapevano che non c’erano limitazioni razziali nel nostro sistema. Il fatto che i nazionalisti neri avessero fatto del loro meglio per boicottare le elezioni fino ad allora, non poteva ascriversi fra le nostre responsabilità. Coloro che seguivano quei consigli intimidatori, non avevano che da biasimare loro stessi. Poi c’era il problema di tre milioni di uomini delle tribù e contadini, che non avevano educazione e non sapevano né leggere né scrivere, i quali però avevano il loro sistema tradizionale che li aveva sempre serviti efficientemente. A livello di clan era come una grande famiglia dalla quale il capo emergeva naturalmente e, fino a quando era all’altezza della fiducia e del rispetto dei suoi, egli era un rappresentante e portavoce. Quando sorgevano problemi si riunivano in assemblea, per problemi più vasti, sceglievano rappresentanti più alti per portare le loro istanze a un livello più elevato, fino al consiglio nazionale.
Non conosco un metodo che consenta una più onesta e genuina rappresentatività diretta, traendo linfa dalla base e assicurando che le opinioni del popolo siano accuratamente sviscerate e comprese. Un sistema alieno da corruzione, nepotismo, intimidazioni, propaganda e lavaggio del cervello, tutti quei mali ed ingredienti indesiderabili che fanno parte dei governi più moderni. Coloro che vivono in Africa sub-sahariana e capiscono i costumi e le tradizioni dei diversi popoli locali non possono che condannare le azioni dei maggiori paesi democratici, nella loro tipica arroganza, di imporre a sistemi come questo di sottomettersi come condizione preliminare per l’indipendenza. I paesi africani sono stati obbligati ad abbandonare questi sistemi tradizionali, provati e testati, per rimpiazzarli con il modello della democrazia occidentale. E ovunque ciò è stato messo in pratica ne è risultato un disastro, in totale antitesi con le previsioni. Un’elezione e poi basta. L’Africa sub-shariana odierna è dominata da dittature monopartitiche e militari, bancarotta e caos. Se solo le persone si muovessero dalle loro poltrone e venissero a vedere con i loro occhi! devo ancora trovare uno solo, che dopo aver visitato l’Africa, non si sia convinto delle nostre ragioni. È facile, quando vivi a migliaia di chilometri, prescrivere soluzioni, sapendo che qualsiasi cosa succederà non dovrai convivere con i suoi risultati. La migliore garanzia che il mondo dovrebbe avere è che noi ci siamo dedicati a cercare le migliori soluzioni per tutto il nostro popolo rhodesiano, a prescindere dalla razza, dal momento che noi ed i nostri figli avremmo dovuto convivere con i risultati delle nostre scelte. Certamente non potevamo permettere di essere usati come marionette per far contenti i nazionalisti.
I nostri interlocutori del governo ci ascoltarono pazientemente. Home replicò dicendo che, mentre il mio tema era convincente per loro, la maggior parte degli altri governi post-coloniali lasciava molto a desiderare. Sfortunatamente, giudicando dalle ultime riunioni, né il Commonwealth, né l’ONU, avrebbero accettato il nostro piano. Il governo britannico si aspettava da noi che trovassimo il modo di coinvolgere più dei mille membri dell’Indaba, il consiglio tradizionale.
Feci tre obiezioni: che la maggior parte degli uomini delle tribù ignorava cosa fosse una costituzione, non avevano nella loro vita mai votato in una elezione o referendum come intendiamo noi e soprattutto ogni tentativo di insegnare loro le intricate involuzioni della nostra non semplice costituzione sarebbe stato non solo arduo, ma disonesto.
Ogni simile tentativo sarebbe stato un attentato all’autorità dei capi ed alla tenuta del loro sistema. Avremmo fatto credere agli uomini delle tribù che i loro leader non erano davvero leader e che qualcosa al di là della loro comprensione era stato introdotto sulle loro teste per sostituirli e sradicarli. Ciò significava aprire un ampio territorio di caccia per gli estremisti. Qualsiasi cosa mantenesse un senso della legge e dell’ordine, regolasse e servisse il popolo, preservando una loro idea di giustizia e libertà, era un argine contro l’estremismo. Dal momento che la maggior parte degli stati membri del Commonwealth e dell’ONU era comunista non c’era possibilità di immaginare niente di buono.
Fui accusato di fare ostruzionismo e di non essere realista. Al contrario, cercavo di convincerli realisticamente che i rhodesiani avrebbero dovuto convivere con i risultati delle loro scelte. Avremmo dovuto accettare qualcosa che avrebbe certamente rovinato il nostro paese. Non potevamo farlo, se fossimo stati messi di fronte a questo non avremmo potuto far altro che prendere la nostra strada. Home parlò severamente contro questa opzione, avvisando che ci sarebbero state serie conseguenze per noi. Li assicurai di aver fatto i nostri conti e di non essere ciechi. Tuttavia questo sarebbe certamente stato preferibile all’alternativa offertaci.
Avevamo passato ore in discussioni intense, decidemmo di aggiornarci l’indomani. Cenammo con Alec Home e signora e vari altri dignitari. In quell’occasione capii quel che avevo sospettato. Con le elezioni alle porte, per i tories sarebbe stato impegnativo e controverso attuare una simile decisione, attirando su di loro l’odio dell’establishment di sinistra. Home assicurò che in caso di vittoria saremmo arrivati ad un accordo nel giro di un anno. Prima della prossima conferenza dei premier del Commonwealth e senza elezioni dietro l’angolo.
(…) Mi convinsi che se non fosse stato per l’ONU e i premier africanisti, non sarebbe stato difficile raggiungere un accordo nemmeno con i laburisti.

(Il governo rhodesiano fece la dichiarazione unilaterale di indipendenza l’anno seguente, 11 novembre 1965, non avendo trovato un accordo con il nuovo governo laburista).

I rinnovati sforzi per l’organizzazione del nuovo stato, nel biennio 1967-1968: senza paura.

Con l’arrivo del nuovo anno, il 1967, facemmo il punto della situazione. Benché stessimo fronteggiando le sanzioni meglio del previsto, esse erano comunque un impedimento notevole ed avremmo preferito non averle. Pianificammo di ridurre la produzione di tabacco poiché le riserve di tabacco erano al di sopra del solito. Questa non fu una bella notizia, poiché il tabacco era il nostro principale prodotto d’esportazione e la nostra principale fonte di reddito e impiego. Avviammo un programma per incoraggiare ed assistere i nostri coltivatori di tabacco a diversificare con altre colture. Non di meno il nostro bilancio era sano e c’era uno sviluppo economico positivo che copriva un’ampia gamma di attività, con notevoli investimenti nell’attività estrattiva mineraria. Mentre il nostro scambio con la Gran Bretagna era in calo, il vuoto era stato subito riempito da nuovi partner quali Francia, Giappone, Germania, Italia e numerosi altri paesi più piccoli. Non importavamo più trattori e impianti dalla Gran Bretagna e dagli USA, ma da Francia e Giappone. Chi cercava di fermarci con le sanzioni era nel suo pieno sforzo e faceva fiorire sempre nuovi problemi.
Voglio ricordare un’occasione che scaldò il mio cuore. Possediamo in Rhodesia, a Selukwe, mia cittadina natale, il cromo migliore del mondo. Proprietà di uno dei grandi consorzi americani. A causa delle sanzioni, essi persero il diritto di esportare quel cromo ai loro impianti in USA. Fortunatamente, data la sua alta qualità, non abbiamo avuto difficoltà a rimpiazzarli. Vendevamo quel cromo all’Unione Sovietica, la quale a sua volta vendeva cromo di qualità inferiore del nostro, a prezzo doppio, agli USA. Questo era il prezzo che gli americani erano disposti a pagare pur di boicottarci.
E non era tutto. La maggior parte dei nostri mezzi di trasporto, macchinari agricoli e trattori venivano dagli USA. Furono tagliate le importazioni, ma abbiamo trovato altrove ciò di cui avevamo bisogno, non siamo stati danneggiati da questa mossa, ma gli americani hanno perso un grosso cliente. Inutile dire che il contribuente medio statunitense pagò invece molte delle sue tasse per sussidiare gli stati africanisti dominati da dittature, nella loro lotta contro un piccolo paese africano, la Rhodesia, che era uno strenuo sostenitore del mondo libero e della libertà d’iniziativa, che aveva sempre combattuto al fianco di Gran Bretagna e USA nella lotta per la democrazia, la libertà e la giustizia, contro i demoni del nazismo e degli estremismi. Nessun politico USA fu mai capace di giustificare queste decisioni.
Sfortunatamente registrammo il primo incremento di terroristi negli attacchi contro la Rhodesia, il loro primo obiettivo erano le persone delle tribù, semplici, non sofisticate, i lavoratori delle fattorie che non capivano cosa stesse accadendo. Venivano forzati, pistola alla tempia, a dare tutto quello che avevano, cibo e rifugio. Uno dei più rispettati e colti capi matabele, Sigola, invitò il segretario generale ONU a visitare la Rhodesia, scrivendogli queste parole:

La Rhodesia è un paese pacifico. Non c’è la guerra qui, solo le vostre chiacchiere d’oltremare potrebbero provocarla. La nostra unica fonte di preoccupazione sono i terroristi armati dalla Cina e dai paesi comunisti senza libertà di parola né un sistema multipartitico. Perché mai l’ONU, che dovrebbe conservare la pace, dovrebbe intervenire nel nostro pacifico paese? Nella nostra lingua sindebele c’è un proverbio che dice che non si possono tenere due tori nella stessa stalla. Ebbene il nostro toro lo abbiamo ed è il nostro governo. Non vogliamo interferenze da nessun altro.

Inutile dire che non ebbe mai la cortesia di ricevere una risposta.
Anche dai membri neri dell’opposizione in parlamento ci fu una netta condanna del terrorismo. Uno fece un appello ad ogni cittadino per prendere le armi e difendere il paese dagli infiltrati terroristi stranieri che uccidono per il gusto di uccidere e rapinano i più poveri, anziani, indifesi. Addirittura un altro membro nero del parlamento denunciò il fatto che i terroristi fossero pedine britanniche per giustificare un’invasione della Rhodesia ed un altrò affermò che pur essendoci profonde differenze fra noi del governo e l’opposizione, saremmo comunque stati una sola nazione nella difesa dell’ordine e della legge. Altri membri ancora invitarono il nuovo premier britannico Wilson a protestare contro lo Zambia (che ospitava e foraggiava i terroristi ed interferiva nella politica della Rhodesia), dal momento che proclamava di essere difensore dell’autonomia dei popoli africani.
Da parte mia protestai con Londra, accusandoli di permettere allo Zambia di proteggere i terroristi ed attaccare subdolamente la Rhodesia. Affermai che le prime vittime del terrorismo erano persone nere, disarmate, torturate, minacciate, derubate e uccise per aumentare la paura e la sottomissione della popolazione di colore. Sapevamo che l’ambasciata britannica a Lusaka era a conoscenza di tutto e da quanto sapevamo non stavano solo lasciando fare, ma stavano addirittura promuovendo l’impegno del presidente Kaunda contro di noi. Ma Wilson ignorava i nostri messaggi di denuncia su questi gravi fatti provati e viceversa ci interpellava solo quando voleva ottenere qualcosa da noi.
Per qualche mese ci furono voci secondo le quali Wilson avrebbe voluto di nuovo parlare con noi. Non mi avrebbe stupito, data la sua abitudine di cambiare bandiera, fingendo di rimanere costante. In un momento, trovandosi fra i suoi amici africani e asiatici, ero il peggior diavolo sulla faccia della terra, che egli non avrebbe mai voluto incontrare. Ma, il momento successivo, se per altri motivi gli fosse convenuto, avrebbe immediatamente cambiato la musica e sarebbe stato l’unico interlocutore ragionevole sulla scena, parlando con i miei colleghi di governo. Quindi non ci stupì quando inviò Lord Alport a Salisbury (odierna Harare), il 13 giugno 1967, per uno scambio di vedute. Wilson capiva che le sanzioni non stavano funzionando. Non fummo colpiti da Alport, che aveva già servito la Rhodesia durante l’epoca della Federazione, tuttavia egli dimostrò impegno e riportò a Londra la notizia che non solo le sanzioni non sembravano avere avuto efficacia, ma probabilmente ne avrebbero avuta sempre meno in futuro. Diede a Wilson e ai laburisti notizie che apparvero loro molto deprimenti: il fatto che avesse trovato la maggior parte dei neri con i quali aveva parlato, tanto ansiosa quanto noi di arrivare al riconoscimento del nostro governo. Si era ormai alla fine di luglio.
Il nostro ministro delle Finanze, John Wrathall, mi confermò lo stato di salute della nostra economia e annunciò in pubblico che le esportazioni britanniche in Rhodesia rimanevano sorprendentemente alte nonostante le sanzioni. Wilson aveva bisogno della Rhodesia per far contenti i terzomondisti e riempire le prime pagine dei quotidiani, in modo da distogliere l’attenzione dal caos che stava vivendo l’economia britannica. Simbule, ambasciatore dello Zambia a Londra, aveva detto che la Gran Bretagna era come un bulldog sdentato che scodinzolava di fronte a Ian Smith. L’accettazione di un ambasciatore è sempre soggetta all’approvazione del governo e ci sono casi nei quali un ambasciatore è anche stato rimandato come indesiderabile. Certamente noi non avremmo accettato un tale insulto da un ambasciatore. A Londra invece fu accolto a braccia aperte!
(…)
È interessante ricordare che, quando i Comuni dibatterono, a giugno, la decisione di Wilson di promuovere le sanzioni ONU, i conservatori si lanciarono all’attacco, con Alec Home che accusò il governo laburista di incoraggiare il terrorismo contro la Rhodesia e Patrick Wall che parlò di un “vile attacco, imposto dall’ONU, contro i nostri connazionali in Rhodesia”.
Furono sequestrati i passaporti di diversi cittadini rhodesiani in visita in Gran Bretagna e messi al bando da tutte le competizioni le squadre e gli sportivi rhodesiani.
(…)
La più grande incursione cominciò all’inizio del 1968, quando i terroristi prendevano tempo per pianificare attentamente, muovendosi nel cuore della notte, nelle zone più marginali e selvagge del paese. Non stavano solo seminando il terrore nelle tribù, ma stavano anche mettendo in pratica le tattiche psicologiche inculcate loro dal marxismo-leninismo. Dicevano a chi incontravano che loro volevano togliere tutto ai bianchi per ridistribuirlo ai neri. Le persone semplici, che vivevano lontane dal mondo e non sapevano cosa stava succedendo, erano facili bersagli. I terroristi avevano i loro accampamenti nelle montagne boscose, oltre il fiume Zambesi. Avevano una serie di rifugi sotterranei dove si nascondevano e tenevano le loro armi, da dove partivano i loro attacchi alle fattorie. Nonostante tutte le loro precauzioni, comunque, dovevano aver realizzato che era solo questione di tempo e sarebbero stati scoperti. Un ranger che passava nella zona ci avvisò di impronte di stivali sospette, che si scoprì essere forniture cinesi. L’allarme era scattato. I terroristi erano ben armati ed opposero resistenza, ma alla fine riuscimmo a respingerli oltre il confine e un centinaio cadde sul campo. Avevano un considerevole arsenale ed anche scorte di cibo e vestiti, di origine cinese. Malgrado Londra negasse ogni coinvolgimento, fummo soddisfatti del nostro report da Lusaka che ci dava prove sul fatto che fornissero assistenza economica e documenti di viaggio ai terroristi.
Un altro evento importante fu la comparsa sulla scena, nel giugno 1968, del mio vecchio amico Max Aitken, figlio di Lord Beaverbrook, uno dei maggiori sostenitori di Churchill e ministro nella Seconda Guerra Mondiale. Max era succeduto al padre come dirigente dell’azienda editoriale Beaverbrook, ed io avevo mantenuto contatti con lui che risalivano a quando eravamo piloti in Egitto. Il Daily Express ed il Sunday Express adottarono sempre un onesto e realistico approccio al problema rhodesiano. Aitken visitò in segreto la Rhodesia e tentò una mediazione con il governo.
(…)
La nuova tattica wilsoniana non si fece aspettare a lungo. Thomson, nella veste di nuovo ministro senza portafoglio, volò a Salisbury il 2 novembre, accompagnato da un volto nuovo, Maurice Foley, ministro di un nuovo ibrido, il ministero degli Affari Esteri e del Commonwealth. Erano accompagnati anche da uno dei maggiori diplomatici britannici, Denis Greenhill, con il quale avevamo già lavorato e che avevamo già trovato comprensivo nei nostri confronti. Il confronto fu cordiale e costruttivo, almeno in superficie, ma ci domandavamo cosa stesse succedendo dietro le quinte, durante i frequenti aggiornamenti. Il nostro giorno dell’Indipendenza, l’11 novembre, che coincideva con il giorno dell’Armistizio, si stava avvicinando rapidamente e in maniera imbarazzante per i politici britannici, quindi scelsero una ritirata strategica, partendo due giorni prima e tornando due giorni dopo, utilizzando quei giorni per visitare i loro sodali nei paesi vicini. Ancora una volta era evidente che Londra non osava prendere decisioni senza consultare i sodali del Commonwealth. La loro tattica era cercare di spremerci il più possibile. Ma io non mi stancai di ribadire ciò che avevo già detto in più di un’occasione: se per loro era facile parlare perché stavano giocando, noi parlavamo del futuro delle nostre vite e non potevamo cedere sui principi fondativi.
Fecero ritorno a Londra il 16 novembre. Le riunioni erano andate avanti oltre ogni precedente durata di simili sessioni, ma con scarsi risultati. Forse posso citarne due: primo, una dichiarazione di accordo sul fatto che “la nuova costituzione continua sulla direzione indicata dalla costituzione del 1961, per un progressivo avanzamento del principio di governo della maggioranza”. Questo era un punto fermo che brillava nella nuova costituzione e lo menziono solamente per affossare i proclami dei movimenti terroristici, ripetuti ad nauseam dal presente governo zimbabwiano, ovvero che la nostra dichiarazione unilaterale di indipendenza era motivata dal desiderio di perpetuare il potere della minoranza bianca. Secondo, gli inviati di Londra ci chiesero che le organizzazioni terroristiche ZANU e ZAPU, addestrate da istruttori sovietici, cinesi, cubani e libici fossero riconosciute come partiti. Questo avrebbe solo potenziato la loro strategia del terrore e dell’intimidazione. Noi avevamo le prove delle misure barbare che erano pronti ad usare contro le masse per vincere le elezioni. Replicai a Thomson e Foley chiedendogli se per caso avessero anche in previsione di suggerire la restaurazione e il riconoscimento del partito nazista e della svastica? Per noi tale richiesta significava la stessa mostruosità.
Come parte del mio discorso alla Rhodesia, il 19 novembre 1968, dissi:

Dopo aver ascoltato quanto vi ho detto, sono sicuro accetterete la validità della mia accusa, che l’attuale proposta è infinitamente peggiore delle precedenti. Stento a credere sia stata fatta seriamente. Ci era chiaro che i britannici fossero ossessionati, durante tutte le riunioni, dalla questione del governo di maggioranza nera e ciò influenzava ogni loro pensiero. Loro sono preparati a venderci, noi rhodesiani crediamo invece che qui ci sia spazio per tutti i rhodesiani, neri e bianchi. Ogni ulteriore suggerimento simile è per noi inaccettabile.

Le porte per la negoziazione rimanevano aperte ed aggiunsi che in ogni caso, anche non fossimo arrivati ad un accordo, Londra si stava solo preparando ad un estenuante confronto con noi, che saremmo arrivati alla nostra destinazione, prima o poi, qualsiasi cosa fosse successa.
Significativamente, nel giorno dell’Indipendenza, la nuova bandiera rhodesiana, verde e bianca, fu issata per la prima volta e fu ammainata quella britannica. Fu un momento di malinconia, che non sarà mai dimenticato da chi vi partecipò. Era il culmine delle azioni dei passati governi britannici, conservatori o laburisti, colpevoli di blaterante disonestà, tradimento degli accordi, in appoggio al nazionalismo estremista africano. Se Londra non ci avesse abbandonati, la Rhodesia sarebbe rimasta come un baluardo degli ideali liberali e democratici britannici, opposta alle dittature monopartitiche africane, e avremmo ancora avuto una Union Jack in Africa, invece di un uccello zimbabwiano sovrapposto a una stella rossa marxista.
Il nostro pil era alto e l’industria quanto l’edilizia in sviluppo. A causa delle sanzioni esportavamo applicando degli sconti ed importavamo con dei rincari e ovviamente ciò metteva a dura prova la tenuta delle finanze, ma grazie agli sforzi di tutti i rhodesiani, neri e bianchi, la nostra bilancia dei pagamenti era sotto controllo, e soprattutto, il morale della popolazione era alto.
Seguimmo con interesse la conferenza dei premier del Commonwealth, che si teneva a Londra, il 7 gennaio 1969, e mi godetti le notizie piccanti che ci arrivavano. Indira Gandhi annunciò che l’India si sarebbe ritirata dal Commonwealth per assenza di credibilità. Il premier di Singapore espresse la sua disillusione. Ayub Khan si disse disperato e non passò molto che anche il Pakistan uscì dal Commonwealth. L’Africa sub-sahariana come sempre in subbuglio. Kenya, Uganda e Tanzania erano dittature monopartitiche ed erano impegnati ad espellere gli asiatici nonostante fossero nati in quei paesi. Kaunda era da poco al potere in Zambia che già aveva di fatto imposto un governo a partito unico. La Nigeria era immersa fino al collo in una sanguinosa guerra civile e quasi ovunque, anche in Africa Occidentale, i governi si erano sbarazzati delle opposizioni.
Quando i giornalisti interrogarono il governo Wilson in merito alle violazioni dei diritti umani in quei paesi, egli replicò che Londra non interferiva negli affari interni dei paesi membri del Commonwealth! Tuttavia gli affari interni della Rhodesia erano il primo tema in agenda da mettere sul tavolo a ogni loro conferenza.
(…)
Il capo dell’opposizione nel nostro parlamento, Percy Mkudu, un uomo rispettato sotto tutti i punti di vista, si recò alla conferenza dei paesi africani a Dar es Salaam, per proporre il pacifico riconoscimento della Rhodesia, poiché erano le persone nere che soffrivano e venivano uccise dai terroristi. Gli fu detto che siccome egli accettava il nostro governo non era autorizzato a prendere la parola, pertanto fece subito ritorno a Salisbury.
Andavo d’accordo con Mkudu ed insieme abbiamo fatto molte discussioni costruttive. Egli vedeva il bisogno di un cambiamento evolutivo nell’elettorato rhodesiano e riconosceva l’importanza del ruolo giocato in questo progresso dall’integrazione del sistema politico su stampo europeo con quello tribale tradizionale locale. Riconobbe sempre gli elevati standard di vita raggiunti dalla popolazione nera delle città, in molti casi nettamente superiori alla maggioranza della popolazione urbana bianca. Egli riconosceva, come i suoi colleghi dell’opposizione parlamentare, il tremendo stato di corruzione e violazione dei diritti umani nei paesi intorno a noi ed era d’accordo con la via intrapresa per evitare una simile evoluzione delle cose in Rhodesia. Da parte mia apprezzavo la sua moderazione, che era coraggiosa siccome sarebbe stato visto dai terroristi come un “collaborazionista”.
Il nostro maggiore problema era far capire alla Gran Bretagna e al resto del mondo libero cosa fosse l’Africa, dove ricchi dittatori, contravvenendo alla loro superficiale fede comunista di comodo, vivevano come re, mentre i loro popoli degeneravano in povertà, malnutrizione e totale mancanza di libertà. Noi capivamo che era nel nostro più ovvio interesse offrire a tutti i rhodesiani, neri e bianchi, i più elevati standard possibili in ogni campo, educazione, salute, abitazioni e benessere economico, crescita sociale. Sotto il nostro governo gran parte dei neri sono diventati proprietari.
Ma Harold Wilson ed il partito laburista continuavano a lavorare contro di noi. Stavano percorrendo la via comoda di accontentare in tutto i dittatori africani, senza affrontare seriamente il problema delle dittature e dei diritti umani in quei paesi.
Non solo visitatori e turisti d’oltremare, ma anche membri del parlamento di Londra, in visita per trovare prove contro di noi, dovettero riconoscere che in nessuno dei paesi circostanti era stato fatto tanto quanto da noi per la popolazione africana. Avevamo costruito migliori scuole, migliori ospedali, migliori case, migliorato i servizi pubblici e in generale alzato la qualità della vita di tutti. Avevamo anche una pace sociale unica al mondo e un crimine in netto calo. Tuttavia l’ONU, con l’appoggio degli USA e della Gran Bretagna, aveva passato una risoluzione la quale dichiarava che la Rhodesia era “una minaccia per la pace nel mondo”.

Come scrisse lo storico Kenneth Young nel suo volume Rhodesia and Indipendence:

Dopo quattro anni di lotta pareva che la Gran Bretagna fosse finita, nella sua guerra contro il suo minuscolo avversario africano, con il suo piccolo bilancio, le sue ridotte esportazioni, il suo esercito in miniatura. Ma lo spirito ed il coraggio che avevano fatto grande la Gran Bretagna non si era estinto, era emigrato (in Rhodesia).

Come avrebbe fatto Churchill se fosse vissuto in quegli anni.

 Fonte

I media e Big Pharma hanno gli stessi proprietari

  un articolo di capitale importanza del  dottor Joseph Mercola La storia in breve: Big Pharma e i media mainstream sono in gran parte di ...