Pubblichiamo il profilo dedicato a Filippo Corridoni dal suo compagno e commilitone Alceste De Ambris e pubblicata nel 1922. In questo primo contributo De Ambris si sofferma sulla biografia e sul carattere rivoluzionario del protagonista.
Pubblichiamo il profilo dedicato a Filippo Corridoni dal suo compagno e commilitone Alceste De Ambris e pubblicata nel 1922. In questo primo contributo De Ambris si sofferma sulla biografia e sul carattere rivoluzionario del protagonista.
Autore originale del testo: Ian Douglas Smith
"Un’amara resa dei conti", di Ian Douglas Smith
Le memorie del Presidente della Rhodesia, Ian Douglas Smith.
“Voi rhodesiani siete più inglesi degli inglesi!”. Quanto spesso ho udito queste parole negli anni della guerra! Era un commento apprezzato da noi rhodesiani. Sarebbe ridicolo non considerarci britannici, dopo tutto, la nostra storia incomincia con il sogno di Rhodes di aprire una via fra il Capo ed il Cairo.
Nel 1889, Cecil John Rhodes, fondatore
di un impero minerario, leader pieno di ispirazione, ricevette dalla
Regina Vittoria l’incarico di dar vita alla Compagnia Britannica
dell’Africa Australe, per esplorare e sfruttare le terre a nord del
fiume Limpopo. Benedetto dal capo dei matabele, Lobengula, per
verificare la presenza di risorse minerarie nelle terre a nord-est del
Matabeleland, Rhodes inviò sul luogo Frank Johnson e duecentocinquanta
giovani pionieri, su un treno, in un’audace avventura verso l’ignoto. La
fondazione della polizia britannica sudafricana, a Kimberley, 1889,
composta da cinquecento uomini, avvenne proprio per proteggere i
pionieri in arrivo.
Il loro compito era piantare la Union Jack, issarla a Fort Tuli, Fort
Victoria, Fort Salisbury. Stavano andando verso un paese senza mappe,
regno di leoni, elefanti, bufali e rinoceronti, pericolosi serpenti e i
matabele, i più agguerriti soldati dell’Africa, una tribù di zulù del
Natal (Sudafrica) che si era spostata a nord a causa di un dissidio con
il Re Shaka, avevano attraversato il Limpopo e colonizzato un paese
disabitato.
Ma se il compito in questione era portare la bandiera della Regina non
potevano esserci obiezioni, le loro coscienze erano determinate e
chiare.
Le regioni orientali erano colonizzate da diverse tribù nomadi, in
continuo movimento per soddisfare i loro bisogni. Al sud gli shangaans
dal Mozambico e dal Transvaal (Sudafrica). Certamente si trattava di
terre di nessuno, come Cecil Rhodes aveva confermato a Londra, sicchè
nessuno potrebbe accusarlo di “invasione”.
La missione fu completata prima del previsto e, a parte qualche
scaramuccia con i matabele, i problemi erano ragionevolmente prevedibili
per una missione di pionieri. Tali problemi condussero alla breve
guerra del 1893, con i matabele, i quali furono assoggettati. Le genti
incontrate nell’area orientale, generalmente definiti shona, per tratti
comuni fra i loro vari dialetti noti come lingua shona, erano amichevoli
e diedero il benvenuto ai coloni appena arrivati. La frustrazione per
la sconfitta mosse i matabele a una rivolta che coincise con la
sfortunata missione rhodesiana contro il Transvaal, nel 1896, in un
tentativo di colpire il governo boero di Paul Kruger. L’inquietudine
prese anche gli shona e se i matabele furono rapidamente sottomessi e
pacificati da Rhodes, gli shona richiesero più tempo per essere
sconfitti.Una volta terminata la rivolta, nel 1897, regnò la pace.
Infatti davvero la polizia non avrebbe mai fatto ricorso alla violenza
fino al 1962, data in cui i nazionalisti africani iniziarono ad usare la
violenza nella loro campagna per la conquista del potere.
Gradualmente i pionieri iniziarono a prendere possesso del territorio,
cercando l’oro, che era la principale attrazione, e le terre buone per
avviare la produzione di cibo. Fra loro c’erano mio zio George, che era
arrivato dal Capo, nel 1894, e mio padre Jock Smith, che aveva raggiunto
il fratello nel 1898. Non c’erano conflitti dal momento che i locali
non sapevano nulla di estrazioni e anzi si interessavano ai lavori
dell’uomo bianco. Infatti, erano felici di avere l’opportunità di
lavorare e, per la prima volta nella loro vita, guadagnare denaro e
praticare il commercio, qualcosa di cui non erano a conoscenza. La terra
era ricca e non c’erano problemi per la coltivazione dei cereali, che
pure offrivano altre occasioni di lavoro e commercio. Soprattutto perché
gli indigeni adoperavano strumenti agricoli di legno, ben diversi da
quelli di ferro utilizzati dai coloni, con i quali potevano coltivare
solo terreni sabbiosi e poveri. I bianchi sapevano invece coltivare i
terreni più ricchi.
Ovunque i coloni andassero, la prima cosa che facevano era piantare
l’Union Jack. Questo faceva parte della scoperta di un nuovo mondo,
qualcosa al quale gli inglesi rimasti in patria non hanno mai
partecipato. Questi ultimi nemmeno hanno la minima idea dello spirito di
patriottismo legato alla scoperta di nuove terre, in nome della corona e
della patria. Questo era il genere di cose che motivava la fede e
l’orgoglio patriottici. C’era un senso del dovere nel credere alla
causa, crearla, rafforzarla, difenderla. Ripeto, uno stimolo che i
britannici che non sono andati oltre mare non hanno mai esperito.
Senz’altro i pionieri furono uomini per natura vocati al rischio
piuttosto che al rifugio offerto da una vita confortevole, nella
sicurezza basata sul fatto di vivere in una società protetta dalle forze
esterne. Quindi le nostre colonie furono fondate da persone con un
forte carattere individuale, dotate dell’importante qualità di avere il
coraggio delle proprie convinzioni: uomini in prima linea nel costruire
l’Impero Britannico, il maggiore che il mondo abbia mai visto. La Gran
Bretagna, una piccola isola ai margini dell’Europa, un minuscolo atomo
che ha diffuso in tutto il globo la sua civiltà cristiana e occidentale,
portando ovunque l’idea di libertà, giustizia, educazione, salute e
igiene. Proprio qui, nel cuore dell’Africa, il continente nero, i
discendenti dei britannici stavano ancora una volta portando la torcia
della civiltà, in uno degli ultimi angoli del globo che ancora doveva
conoscere la civiltà.
Ovviamente questo non era luogo per deboli di cuore, né per uomini senza
dedizione o senza ispirazione, bensì per uomini convinti che anche
qualora non fossero stati in missione per conto di Dio, senza dubbio
quella era la seconda miglior cosa: essere in missione per la Regina e
per la diffusione della civiltà britannica.
Allora non ci sorprende se i figli di costoro erano più britannici dei
britannici. Questo era quello per cui siamo stati cresciuti ed educati a
vivere. Quando si passava sotto una bandiera britannica (e ce n’erano
su tutti gli edifici), la si guardava e ammirava. Ogni occasione formale
iniziava con l’inno nazionale, God Save the King, tutti in piedi
sull’attenti, non volava una mosca.
Legge e ordine nella società, disciplina a scuola, lavorare per lo
stesso scopo, non si poteva abbandonare la squadra, e alla fine per essa
poteva anche essere necessario offrire la vita. Tali erano le
condizioni sotto le quali dovevi vivere, alle quali, come membro
dell’Impero, avevi il privilegio di sottostare.
Ad ogni modo c’era una interessante anomalia, dal momento che noi non
siamo mai stati governati direttamente da Londra, non siamo mai
rientrati nella categoria di colonia. Noi eravamo governati dalla
Compagnia creata da Rhodes, con l’appoggio e l’incoraggiamento del
governo britannico, per fondare insediamenti a nord del Limpopo, a est
del Botswana (Bechuanaland allora), a sud dello Zambesi.
Alla fine della Prima Guerra Mondiale, nel 1918, la Rhodesia era un
paese propsero e in via di sviluppo in tutte le sfere della vita e i
suoi abitanti stavano sviluppando affari, per governarsi autonomamente.
La performance rhodesiana fu esemplare. L’economia ben condotta, lo
sviluppo ben pianificato e il progresso avanzava. C’era armonia nelle
relazioni fra le diverse razze e i rhodesiani avevano dato un contributo
nella guerra che non era secondo a nessuno. Con un tale successo Londra
non poteva far altro che benedire l’auto-governo. I rhodesiani furono
posti davanti al bivio, se essere incorporati come quinto stato
nell’Unione Sudafricana o ricevere lo status di “governo responsabile”,
un “semi-dominion”. I rhodesiani si convinsero che una simile
costituzione avrebbe dato loro i benefici di un dominion vero e proprio,
con la garanzia della protezione britannica negli affari esteri nel
resto del mondo, onere altrimenti insostenibile da un paese tanto
piccolo.
La decisione fu messa a referendum nel 1922. Malgrado l’intervento
personale del generale Jan Smuts, in seguito primo ministro del
Sudafrica, che visitò il paese facendo numerosi incontri, facendo uso
della sua grande saggezza e del suo personale fascino, nello sforzo di
convincere i rhodesiani ad aderire all’Unione, i rhodesiani votarono
nella misura di 2 a 1 per il “governo responsabile”. Votarono con il
cuore, non con la testa. Il Sudafrica era pieno di non-britannici (se
non anti-britannici): gli afrikaners, e i rhodesiani non erano preparati
ad accettare un simile cambiamento nel loro carattere nazionale. Smuts
era una mosca bianca, ma gli altri afrikaners? Era meglio mantenerli
come alleati, come sempre, ma difendere la nostra identità britannica,
la fedeltà della Rhodesia non era negoziabile.
È facile parlare oggi con il senno di poi, ma chiaramente i rhodesiani
fecero una scelta errata. I vantaggi pratici ed economici di aderire
all’Unione Sudafricana, a quel tempo, avrebbero materializzato e persino
superato le aspettative. Con i vantaggi derivanti dal far parte di una
economia più vasta e diversificata, dall’avere l’accesso ai porti (la
Rhodesia non ha sbocchi sul mare), dal procedere all’eliminazione delle
dogane, pur rimanendo nel Commonwealth, dal momento che a quel tempo il
Sudafrica ne faceva ancora parte, le cose sarebbero solo potute
migliorare.
La Corsica e i partigiani. Ian Smith a Moretti, con Mingo.
In Corsica facevamo parte di un gruppo
americano e, quando non scortavamo i bombardieri nelle loro missioni
giornaliere, le nostre operazioni consistevano principalmente in raid su
treni fermi e sul trasporto pesante. Siccome si notava l’assenza di
aerei tedeschi, un altro sport era scovarli. Volavamo spesso sopra la
Torre di Pisa e in una occasione volai basso e le feci un giro intorno
per avere una vista migliore, forse qualcuno si sarà allarmato.
Eravamo su posizioni più avanzate verso settentrione rispetto ai nostri
che avanzavano sulla penisola e quindi eravamo nelle condizioni di
colpire obiettivi più interni, oltre la linea del fronte. Mi ricordo
l’arrivo allo squadrone di un giovane rhodesiano, Jack Malloch, che era
stato abbattuto, durante un raid, poco prima della fine della guerra.
Tornò in Rhodesia e fondò la sua compagnia aerea, che dal 1965 diventò
una delle armi nella nostra operazione di resistenza alle sanzioni. Alla
metà degli anni ’70, ottenne dalla nostra forza aerea un MK 22 Spitfire
che era stato a riposo dal 1954. Attraverso i suoi contatti in tutto il
mondo trovò i pezzi di ricambio necessari, lo riportò alla sua antica
gloria e volò di nuovo, il 29 marzo 1980. In molte occasioni successive i
rhodesiani parlavano di questo spettacolo, il più bell’aereo mai fatto
volare nei cieli sopra di loro. Tragicamente, il 26 marzo 1982, Jack ed
il suo amato Spitfire scomparvero in un’inaspettata e violentissima
tempesta.
Una nota nel suo diario ricorda per il 9 giugno 1944: un grande giorno,
sei dei nostri hanno abbattuto 15 caccia e ne hanno danneggiati 14, Ian
Smith comandava la spedizione.
Erano tempi stimolanti e pochi giorni trascorrevano senza simili eventi.
Una mattina, un mese più tardi circa, stavo volando sul Po, per
bombardare una linea ferroviaria importante. Colpivamo depositi di
munizioni e carburante. Vidi andare a segno le bombe e salire colonne di
fumo nero. Poi commisi l’errore dal quale avevo spesso messo altri in
guardia: tornai sui miei passi. Non c’era segno di resistenza, ma era
normale, con l’effetto sorpresa, al nostro primo attacco. Diverso è
tornare sul luogo del delitto. I miei colpi erano andati a segno e
peccai di eccesso di confidenza in me stesso e compiacenza e rivedere
quello che avevo fatto era per me invitante. Comunicai ai compagni di
guardarmi le spalle mentre io sarei tornato ad attaccare un’altra linea
di vagoni merci. Appena mi lanciai in picchiata avvertii un colpo che
scosse violentemente il mio aereo, quindi virai verso la costa e la
base, dicendo al mio numero due di seguirmi e agli altri di proseguire
nell’operazione.
Notai che il motore era partito, provai a riguadagnare quota. Se avessi
potuto superare la costa anche di poche miglia, avrei avuto buone
possibilità di essere recuperato dai nostri. I nostri soccorsi
pattugliavano costantemente il tratto fra Corsica e Liguria e sarebbero
stati in grado di ricevere il mio mayday. Comunque questo non successe.
La temperatura era schizzata e io sentivo il calore salire. Il mio
secondo, Alan Douglas, mi avvertì prima dell’uscita di fumo nero dal mio
velivolo, poi di fiamme. Realizzai il pericolo, siccome il fuoco
raggiungeva il serbatoio e l’intero aeroplano sarebbe esploso. C’era
soltanto una risposta. Mi paracadutai fuori, anche se avrei preferito
essere più alto per compiere questa operazione.
Tirai la corda immediatamente, ma il paracadute non si aprì prima che
andassi a sbattere contro una montagna e rotolassi giù, fermandomi in un
cespuglio. Il mio primo pensiero fu allontanarmi a tutti i costi il più
possibile dal punto della caduta, nel caso qualcuno mi avesse
avvistato. Scoprii un bosco dove rifugiarmi. Cercai di riprendere fiato e
scrutare la zona, realizzando che quello era tanto ovviamente il posto
migliore dove nascondermi che sarebbe stato il primo ad attrarre
l’attenzione se qualcuno si fosse messo sulle mie tracce. Quindi risalii
la montagna fino a trovare un altro bosco meno evidente. Mi svestii
perché il sole era molto caldo e mi misi ad aspettare.
Presto un uomo in abiti civili apparve sul luogo della mia caduta e
provò ad attrarre la mia attenzione. Io stavo nascosto, giù a terra,
ignorando se fosse un’offerta generosa o una trappola. Più tardi un
ragazzo con il suo gregge di pecore mi passò accanto, senza notarmi.
Tutto fu calmo fino a quando, un’ora dopo, un plotone di tedeschi, con
un cane segugio, fece la sua apparizione. Fortunatamente non avevano
visto il paracadute e dato che le pecore erano passate dove ero passato
io, non vi erano tracce olfattive per il segugio. Urlarono e con
evidente frustrazione se ne andarono via.
Dopo il tramonto, l’aria divenne più fredda. Ci avevano detto che la
grande maggioranza dei locali era amichevole e realizzando che avrei
dovuto cercare l’aiuto di qualcuno, non attesi oltre. Quando il giovane
pastore tornò con le sue pecore, emersi dal mio nascondiglio e lo
approcciai. Non si scompose e mi accompagnò lungo un sentiero impervio
fra le montagne, fino a quando vedemmo una casa in fondo alla valle
sotto di noi, dalla quale potevamo udire colpi di taglialegna.
Adoperando il linguaggio dei segni, mi fece capire di sedermi ed
aspettarlo. Dopo poco tornò con il suo fratello maggiore, un ragazzone
molto simpatico, e mi condussero alla casa. Fui presentato alla madre,
una donna ben piantata, con un sorriso accogliente, e al suo terzo
figlio. Poi fui portato in camera da letto e mi presentarono il padre,
ovviamente un omino. Seguì un buon pasto a base di minestrone e pane e
trascorsi una notte inaspettatamente confortevole.
La mattina seguente la madre mi condusse mezzo miglio da là, in una
piccola spelonca nella montagna. La sua spiegazione chiarì che era una
misura precauzionale nei confronti dei tedeschi. Fu saggia, perché nei
giorni seguenti i tedeschi tornarono a interrogarla e perquisire la casa
più di una volta. Mi lasciò una coperta che fu la mia casa per alcuni
giorni. Veniva due volte al giorno a portarmi i viveri, nascosti sotto
uno strato di castagne per dissimulare.
Una volta persuasi i tedeschi, potei vivere, con qualche precauzione,
una vita ragionevolmente normale presso di loro. I partigiani locali
avevano un efficiente sistema di comunicazione nel caso i tedeschi
fossero arrivati. Inoltre noi ci trovavamo in Vallescura, un nome
perfetto per un luogo appartato dal resto del mondo. Mi mantenni in
salute con lunghe passeggiate e arrampicate alla ricerca di castagne e
funghi, facendo esercizio fisico ogni giorno, tagliando la legna per il
fuoco e il pane. I miei ospiti pensavano che io mi sentissi in obbligo
di fare ciò, per ricompensarli, ma spero di essere riuscito a
convincerli del contrario. La mia famiglia adottiva, Zunino, esagerava
nel procurarmi ogni comodità possibile e, anche considerando che si
trattava di una famiglia povera, certamente questo mi commuoveva.
Una delle mie principali preoccupazioni fu imparare l’italiano,
fondamentale per riuscire a tornare dai miei, attraversando le linee
nemiche, qualcosa che continuamente pensavo. Fortunatamente un capitano
inglese, Davis, che si trovava nel villaggio vicino, Olba, mi trovò. Era
un fuggiasco da un vicino campo di prigionia. Era stato curato e
ospitato da Gianni e Nina Pesce, nella casa dove erano scappati,
abbandonando Genova. Erano una bella coppia, con forti sentimenti
filobritannici e antinazisti, e feci loro spesso visita, nella loro
amabile casetta. Furono felici di fornirmi un dizionario
inglese-italiano e le Opere complete di Shakespeare. Non potevo
pretendere nulla di meglio. Quando potevo andavo a lezione di italiano
di base da loro.
Dopo un mese circa, mi raggiunse il comandante di una divisione
partigiana locale, un personaggio carismatico con una barba affascinante
e un fucile automatico sotto il braccio, una bandoliere di proiettili e
una serie di granate intorno alla cintura. Venne a verificare il mio
stato di salute e a chiedermi se poteva fare qualcosa per me. Aveva un
inglese sufficiente per comunicare. Dopo una discussione fu deciso che
lo avrei accompagnato al suo quartier generale e ricevetti la sua parola
d’onore che mi avrebbe aiutato a tornare dagli Alleati.
Il mio grado? Capitano, replicai. Dichiarò che mi avrebbe promosso al
grado di maggiore e da quel momento fui presentato a tutti come “il
maggiore pilota inglese”. La più rapida promozione da me mai ricevuta e
presto capii che la promozione aveva l’effetto di innalzare il prestigio
del mio comandante. Dopo tutto nessuno poteva vantare di avere un
pilota inglese, per di più maggiore.
Fu interessante partecipare alle loro discussioni e pianificazioni.
Avevamo tutti buon cibo e buon vino, vestiti presi ai nemici sorpresi
nelle imboscate, un barbiere e qualche volta una vecchia Fiat per
spostarci.
Eravamo di base a Moretti. Abitavo presso il dottor Prando e la sua
meravigliosa famiglia, nella loro splendida residenza, dove il medico si
era ritirato dal lavoro, che praticava a Genova. C’era un secondo
reggimento nel villaggio sotto il comandante Mingo, un uomo fuori dal
comune, ingegnere dell’esercito italiano prima di andare a unirsi alla
resistenza. Invece di caricare una pistola, camminava con la sola
protezione di una dozzina di granate alla cintura.
Ai margini del villaggio c’era una tenuta magnifica, di un uomo attivo
nel commercio di uova e pollame, che aveva ovviamente fatto tanti soldi.
A vivere con lui un colonnello che era stato congedato dall’esercito
per problemi cardiaci. Secondo Mingo, il colonnello era un uomo
brillante, il più giovane colonnello in Italia. Anche lui si era unito
alla resistenza, non attivamente, ma dando supporto morale e consigli.
Mingo ed io spesso conversavamo insieme di molte cose e giocavamo a
bridge.
Tristemente, c’erano giorni in cui qualcuno cadeva sul campo, ma non
spesso. Tragicamente, durante un fine settimana, mentre ero dai Pesce, i
tedeschi attaccarono Moretti in forze. Invece di dileguarsi, Mingo
decise di rimanere ad affrontarli. Lanciò le sue granate colpendo tre
tedeschi, ma una volta finite le sue granate non potè fare nient’altro.
Fu ucciso. I tedeschi permisero alla popolazione di dargli degna
sepoltura. La casa dell’allevatore di polli fu bruciata e rasa al suolo,
senz’altro avevano ricevuto notizie sul suo operato. I partigiani
locali ebbero la “consolazione” di sapere che erano stati colpiti così
duramente per i loro numerosi successi. Il risultato fu che i partigiani
raddoppiarono i loro sforzi e i tedeschi dovettero abbandonare
Sassello.
Subito dopo, per le strade del paesino, fu messa in piedi dai locali,
una vera e propria parata per la vittoria, con musica, festoni e
bandiere. Il giorno dopo Nino ed alcuni altri entrarono nella mia camera
e mi svegliarono dicendo: “Maggiore, maggiore, avanti, abbiamo fatto il
roast beef per lei!”. Spesso mi avevano promesso di prepararmi quello
che secondo loro era il piatto preferito di ogni inglese: il roast beef.
Quel giorno era arrivato, ma fecero un roast beef con una piccola
variazione: un locale aveva ucciso il suo maiale per celebrare il
trionfante arrivo degli Alleati. E quando in Italia c’è carne in tavola
il vino non può mancare, percui fu una gran giornata!
Regolarmente tentavo di riproporre la questione del mio ritorno, ma
incontravo sempre una forte opposizione: avevo bisogno di migliorare
nella lingua; mi vedevano così: un ufficiale inglese, alto, chiaro, con i
baffi, per me muovermi sarebbe a loro dire stato “pericolosissimo”. Ho
vissuto con loro tre mesi, senza dubbio i tre mesi più interessanti
della mia vita, ma la neve incominciava a cadere e non avrei voluto
passare lontano dai miei compagni altri sei mesi, dissi loro che nella
settimana me ne sarei dovuto andare. Quando compresero che la mia
decisione era irrevocabile, la accettarono con filosofia e mi diedero
tutto l’aiuto possibile, come diverse lettere di presentazione, da
mostrare ad altri gruppi partigiani.
Decisi di andare a ovest, verso la Francia. Loro approvarono. Un soldato
britannico, conosciuto come Bill, mi chiese se poteva accompagnarmi.
Dopo tre giorni, altri tre uomini, un francese, un austriaco e un
polacco, che vivevano in un accampamento partigiano nel quale ci
imbattemmo, ci chiesero di unirsi a noi. Ci davano cibo, rifugio e
indicazioni ovunque, raramente ci mandavano via, per paura delle
rappresaglie tedesche.
Un giorno incontrammo un comandante partigiano con un pugno di uomini.
Ci invitò a passare la notte con loro, sulle montagne, da dove
controllavano una vasta area. Disse che spesso sua moglie aveva espresso
il desiderio di conoscere un ufficiale inglese, quindi era stata una
bella sorpresa per lei.
Era una bella donna, alta e magra, lunghi capelli neri ma gli occhi blu e
le guance rosee. Vivevano in un piccolo villaggio, con mucche, pecore,
vigna e orto. Ci offrirono un trattamento cinque stelle: buoni letti e
ottimo cibo, carne, burro, formaggio e verdura fresca. Sorseggiando
vino, conversammo a lungo sotto le stelle.
Il giorno seguente, un giovane medico degli Alpini, ci scortò come
guida. Non era solo un esperto di montagna, ma come ci avvicinammo al
confine con la Francia mostrò di sapere diverse cose sull’area. Era un
piacevole e coltissimo compagno. La mattina successiva si divise da noi
per tornare dai suoi, essendo l’unico medico della zona. Inoltre era un
uomo noto ai tedeschi e noi stavamo per entrare nella tana del lupo. Ma
non ci lasciò prima di darci preziose indicazioni per filo e per segno
per i successivi due giorni di cammino necessari, consigliandoci anche
di dividerci in due gruppi, per dare meno nell’occhio. Bill ed io ci
saremmo incamminati, gli altri tre ci avrebbero seguito il giorno dopo,
noi li avremmo aspettati oltre la zona di rischio.
Avevo portato con me il piccolo pacchetto di pronto soccorso,
incorporato nella divisa di ogni pilota britannico, con una siringa, una
fiala di morfina, bende e alcune medicine. Lo regalai al dottore,
dicendogli che ne avrebbe certamente avuto più bisogno di me. Mi
ringraziò e dopo un caloroso abbraccio, ci dividemmo.
La premiership nel 1964.
Non passò molto tempo prima che il
governo britannico reagisse al cambio di leadership in Rhodesia. Ci
furono espressioni allarmate in merito alla vittoria degli “estremisti” e
cominciò una propaganda al solo scopo di dimostrare questo, mettendo in
guardia il resto del mondo dell’incombente azione irresponsabile,
secondo la loro versione. Al contrario, era stata chiaramente mia
premura tentare ogni azione per raggiungere un accordo con Londra.
Ovviamente questa era la nostra prima intenzione, con l’alternativa
della dichiarazione unilaterale di indipendenza, come ultima spiaggia,
solo in caso ogni trattativa fosse fallita. Avrei potuto essere
personalmente soddisfatto solo quando non ci fossero più state altre
alternative. L’assemblea di partito (*il Fronte Rhodesiano, composto di
fuoriusciti dal partito liberale) mi sostenne come candidato contro un
uomo, ostile all’opinione pubblica, che era stato portato in auge dai
liberali dell’ala di sinistra di Londra. Non ci fu nulla di impetuoso o
viziato nel processo democratico interno al partito.
La prima cosa per me da fare fu mettermi in contatto diretto con Londra
per vedere se fosse possibile spuntarla laddove Field (il precedente
premier rhodesiano) aveva fallito. I britannici stavano gradualmente
recependo che questo era qualcosa di più che un normale cambio di
premier. Il carattere della scena storica era completamente mutato. Per
la prima volta nella storia, la Rhodesia aveva un premier nato sul suo
suolo, qualcuno il cui retroterra non era in Europa, ma in Africa, in
altre parole, un bianco africano. Diversamente dai suoi predecessori, i
quali quando parlavano di “tornare a casa” pensavano alla Gran Bretagna,
la sua casa era invece la Rhodesia. Ciò era qualcosa di inedito e i
nostri informatori ci fecero sapere che la nuova situazione veniva
guardata con una certa apprensione nella madrepatria.
Da parte mia l’ultima cosa che volessi fare era dare un’impressione di
inflessibilità o irragionevolezza. Tuttavia credevo fosse sbagliato
prendersi in giro o far credere ai britannici che ci fosse la
possibilità che noi avremmo accettato una soluzione che non fosse nei
nostri interessi. Ogni tentativo di usarci come pedina nello scacchiere
internazionale, per accontentare gli altri stati africani e i loro
sodali, era per noi inaccettabile. Avremmo accettato solo una soluzione
nel più ampio interesse di tutti i rhodesiani, neri e bianchi. Come
poteva non capirci chiunque avesse un minimo di apertura mentale? Ad
ogni modo era il momento di un chiaro segnale: era finito il tempo degli
indugi. C’era stata più di una prevaricazione nei nostri confronti e
noi esigevamo di sapere dove fossimo. Non solo mi diede soddisfazione
sapere che l’assemblea di partito mi aveva dato pieno sostegno, ma
sapevo anche che ciò era in sintonia con il 90% dei rhodesiani, i quali
erano convinti della giustizia della loro posizione. Erano nauseati e
stanchi del doppiogiochismo politicante.
Inviai un messaggio ad Alec Home, suggerendo che andassimo avanti con le
nostre trattative, riconfermando il nostro indirizzo verso
l’indipendenza, basato sulla nuova costituzione del 1961, recentemente
firmata in accordo con il governo britannico. Questa era stata venduta
all’elettorato rhodesiano come base futura per un eventuale scioglimento
della Federazione. Per i rhodesiani non era l’ideale ma in cambio erano
pronti a un compromesso. Oltretutto, come il mio predecessore aveva
enfatizzato, la nostra partecipazione alla conferenza alle Cascate
Vittoria, era vincolata al principio, accettato da Londra, della
legittimità di una nostra domanda di indipendenza sulla base di quella
costituzione. Se invece i britannici non erano pronti ora a mantenere i
patti avremmo voluto saperne le ragioni. Nella risposta avevano ancora
una volta equivocato: avremmo noi fatto una mossa per dare ai nostri
neri una maggiore rappresentanza in parlamento? Ma era esattamente
quanto avevamo già fatto con la costituzione firmata due anni prima. Il
governo britannico aveva concorso alla sua stesura e ratificazione.
Avrebbe ora desiderato tornare sui suoi passi?
Pianificammo un viaggio delle delegazioni dei consigli tribali per
visitare alcuni paesi e dire la verità sui fatti. Ventinove capi
partirono il 1 giugno per l’India, il Pakistan, l’Europa e la Gran
Bretagna. Furono grati di essere ricevuti dal papa a Roma ma furono
risentiti che nessuno li avesse ricevuti a Londra. I capi erano gli
autentici rappresentanti dei nostri neri, ma erano allora osteggiati da
politici che avrebbero voluto un sistema che avrebbe negato loro ogni
rappresentatività. I capi erano particolarmente preoccupati del fatto
che quei politici stavano corrompendo ed intimidendo i loro popoli per
aizzarli contro di loro.
Negli anni dopo gli scontri del 1893 e 1896-97 si era creato un forte
legame fra i capi tribali e il governo rhodesiano, c’erano un mutuo
rispetto ed una reciproca fiducia. Prima dell’arrivo dell’uomo bianco i
capi erano stati autonomi nelle loro rispettive aree e le divergenze
venivano sempre risolte pacificamente. Solo lo scontro fra i matabele e
gli shona era stato davvero violento. I matabele, provenienti dalla
tribù guerriera degli zulù, erano i più aggressivi e disciplinati e
negli anni si erano estesi a est, rubando spazio agli shona. Fu l’arrivo
dei pionieri a salvare i pacifici shona, nel 1890.
Nel giugno del 1893, ci furono denunce di incursioni matabele, nell’area
di Fort Victoria, erano stati uccisi diversi uomini shona, rapite varie
donne e rubate molte mucche. Era il punto più a est dove si fossero
fino ad allora spinti i matabele e le autorità di Salisbury conclusero
che il fatto non poteva essere tollerato, fu organizzato un contingente
per dare seguito effettivo alla deliberazione. Ci fu qualche scontro una
volta che la forza penetrò nel Matabeleland, ma non ci furono problemi
ad arrivare fino a Bulawayo e ristabilire l’ordine e la legge.
Purtroppo ci fu un tragico evento connesso a questa operazione, che da
solo si guadagnò una pagina memorabile nella storia rhodesiana. Il
maggiore Alan Wilson e la sua pattuglia si trovavano sul fianco destro
del contingente ed incorsero in un gruppo agguerrito di matabele.
Diluviava e quando giunsero al fiume Shangani questo stava straripando,
impedendo loro di proseguire. Si difesero valorosamente e riuscirono ad
uccidere molti nemici, ma con la pioggia non poteva esserci via di
scampo e finirono le munizioni. Inviarono un paio di cavalieri per
chiedere rinforzi dalla colonna principale, ma quando questi arrivarono
era troppo tardi. La maggior parte degli uomini di Wilson avrebbe potuto
salvarsi, ma essi non vollero abbandonare i compagni feriti e rimasero
con loro fino alla fine. Sulla famosa cima Vista sul mondo, nelle
Montagne Matopo, si trovano la tomba di Cecil Rhodes e lo splendido
memoriale ad Alan Wilson ed ai suoi uomini, con un’iscrizione che
informa del fatto che non ci furono sopravvissuti. Gli stessi guerrieri
matabele che combatterono contro di loro li onorarono dicendo che quelli
erano uomini come i loro padri.
L’episodio porta alla luce un’anomalìa. Buona parte delle critiche
all’uomo bianco e alla sua vicenda in Rhodesia viene da politici shona,
opposti ai matabele. Chiaramente se l’uomo bianco non fosse arrivato i
matabele si sarebbero estesi fino al punto di spingere gli shona in
Mozambico o peggio.
Gradualmente, una volta che la pace fu restaurata, le attività dei capi
furono coordinate, a livello provinciale, con consigli tribali
provinciali, e sopra tutti un consiglio nazionale dei capi. Quando
divenni premier, il capo del consiglio nazionale era un matabele,
Umzimuni, un uomo imponente, un metro e novanta per centoventi chili.
Purtroppo morì per problemi cardiaci, gli successe uno shona, Chirau, un
uomo forte ma impreparato a sopportare il crollo dei principi nei quali
credeva, dopo il 1980. Morì poco dopo l’elezione di Mugabe, per “cause
naturali” a dire del governo, ma la sua famiglia e i suoi amici mi
assicurarono che le cause erano state molto poco naturali. Un aggravante
fu che Robert Mugabe, nuovo premier, era nato e cresciuto nel paese di
Chirau e come tale, tradizionalmente, avrebbe dovuto un particolare
rispetto a Chirau. Ovviamente era tutto normale, chi aveva conquistato
il potere con le armi non poteva che governare con gli stessi metodi.
Pochi mesi dopo la mia elezione, chiesi al ministro degli Affari
indigeni di farmi partecipare a un incontro nazionale dei capi, per
manifestare loro il mio rispetto e la mia partecipazione ed attenzione
alle loro questioni. Fu d’accordo. Il giorno seguente venne da me in
compagnia di un impiegato del ministero, uno dei molti impiegati
governativi rhodesiani che avevano dedicato la loro vita allo studio e
alla comprensione delle persone con le quali lavoravano, imparando la
loro cultura e le loro tradizioni. Mi diede una lezione piena di tatto e
profonda passione verso il loro sistema, la tradizione, il rispetto e
la dignità legati ad esso. Il suo consiglio fu di non andare di mia
iniziativa ma di attendere un invito dei capi, omaggiando la loro
autorità. Fui d’accordo. Propose che lui avrebbe manifestato la mia idea
durante un suo incontro con i capi, sicuro che avrebbero reagito
favorevolmente. Il piano funzionò e fui invitato ad una delle loro
riunioni. Mi impressionarono l’efficienza e la dignità del ruolo del
presidente del consiglio Umzimuni, sullo scranno, e gli altri membri,
compreso il ministro, seduti intorno deferenti verso la sua autorità.
Ciò dà un’idea della bugia propagata dai nazionalisti africani e dai
loro collaboratori marxisti-leninisti. Infatti i capi erano
democraticamente eletti a vita in base al loro sistema locale e noi non
abbiamo mai interferito nel loro sistema. Certo ci sono stati casi nei
quali il consiglio nazionale dei capi, non il governo, ha sospeso
democraticamente qualche capo che aveva trasgredito un codice di
condotta condiviso.
Non vi erano scuse per il rifiuto di Alec Home, di dare udienza ai capi,
durante la loro visita in Gran Bretagna. Certamente egli pendeva dalle
labbra dei politicanti che stavano minando le basi del sistema tribale
dei capi. Il risentimento di questi ultimi fu pienamente giustificato.
Il risultato fu che la loro sfiducia nel governo britannico crebbe,
insieme alla speranza di poter lavorare a fianco di un governo
rhodesiano indipendente.
All’inizio di giugno ricevetti anche il messaggio dal governo britannico
che, contrariamente a quanto avvenuto dal 1931 (dall’istituzione del
ruolo di premier in Rhodesia), non sarei stato invitato alla conferenza
dei premier del Commonwealth. Chiaramente i britannici subivano
l’influenza dei leader africanisti dentro al Commonwealth. Fu un
ulteriore nauseante esempio della politica britannica dei due pesi e
delle due misure, con la quale dovevamo costantemente confrontarci.
Espressi pubblicamente il mio risentimento dicendo:
Non siamo esclusi poiché non siamo più fedeli alla Corona e agli ideali con i quali il Commonwealth fu fondato. Siamo esclusi poiché il Commonwealth si è esaurito da solo e non c’è più posto per noi, nell’accozzaglia di staterelli che hanno recentemente ricevuto l’indipendenza e sono stati ammessi al Commonwealth senza considerare la loro adesione agli ideali e al concetto sui quali esso è fondato. Mi domando se siamo davvero ancora voluti all’interno del Commonwealth e quale contributo potremmo dare rimanendovi inclusi?
Ho immenso rispetto, ammirazione e
lealtà verso la Regina, ma ella non è più la Regina che conoscevamo. Non
ha più libertà di parola. Ella non è più altro che la garante della
partitocrazia e non può parlare con la sua testa e il suo cuore. Anche
qualora avessero mai vinto i comunisti, ella avrebbe avuto da nascondere
i suoi sentimenti.
Comunque non mi potevo permettere di fallire nel trovare un accordo.
Scrissi ad Alec Home, riproponendo i punti sui quali esigevo un
chiarimento, a proposito della sua negazione del diritto costituzionale
all’indipendenza. (…) Ciascuno di noi sapeva per esperienza che quando
qualcuno avesse detto una singola parola dissonante con il loro modo di
vedere ed interpretare le cose, si sarebbe trovato, la mattina seguente,
alla porta, qualche tizio dei servizi segreti a chiedergliene conto. La
triste verità era che loro sapevano perfettamente che se avessero
parlato chiaramente in merito alle loro reali intenzioni prima del 1961,
al referendum sulla costituzione i rhodesiani avrebbero votato NO.
Personalmente fui uno dei maggiori oppositori della loro proposta di
costituzione e feci campagna per il NO, non c’è dubbio che il fronte del
NO perse per il semplice fatto che i rhodesiani credettero che,
malgrado le imperfezioni contenute nella costituzione, il più importante
principio era assicurarci l’indipendenza nel caso di una dissoluzione
della Federazione, come a quello stato delle cose nel continente pareva
ovvia e fu pertanto il fattore determinante nel voto. Ma i burocrati
britannici, specialmente quelli nelle sfere più alte, vengono presi da
liste di laureati in aspettativa ed educati nell’arte diplomatica del
decifrare simili problemi e trarre ogni cosa a loro vantaggio. In questo
caso la risposta era ovvia: questa era la perfida Albione al suo
meglio.
L’ovvio metodo britannico per evitare la corrispondenza più
imbarazzante, era per me recarmi direttamente a Londra, tanto più che li
avevo invitati ad esplicitare i loro reali propositi. Propositi che
avrei certamente reso pubblici. Seppi da Londra che sarebbe stato
preferibile attendere la conferenza dei premier e poi avrei avuto via
libera a un incontro con Home.
La conferenza, a quanto seppi, fu una bagarre, con Home intento a fare
il possibile per salvare capra e cavoli, spalleggiato solo da Menzies
(Australia) e sir Keith Holyoake (Nuova Zelanda). Gli asiatici non
espressero entusiasmo, mentre i premier africani, sostenuti dal Canada,
peccarono al solito di eccesso. Protestai perché si parlò di Rhodesia,
alle nostre spalle, ma trattai la loro arroganza con il contegno che
meritava.
In vista delle elezioni in Gran Bretagna, previste entro l’anno,
probabilmente in ottobre, pensai fosse il caso di posticipare la mia
visita fino a che non si fosse insediato il nuovo governo. D’altra parte
pensai sarebbe potuto essere vantaggioso attrarre le simpatie dei
tories, nel caso il Labour avesse vinto, colsi l’opportunità di
incontrare nel frattempo Antonio de Oliveira Salazar, in Portogallo.
Partimmo per il Portogallo il 2 settembre. Era uno di quei paesi dal
fascino antico, con ben poco dei fasti della modernità. La vita era
semplice, con persone più rispettose nei confronti della natura, della
vita in famiglia, con fede nell’onestà e nella propria storia e cultura.
Erano orgogliosi dei traguardi raggiunti: moderni cantieri navali,
un’efficiente industria del pesce, industrie di vetro e marmo che
producevano capolavori, alcuni dei migliori vini del mondo ed alti
standard di agricoltura. Poi l’Algarve, con le sue incantevoli spiagge
linde e strutture balneari moderne, più simili a quelle inglesi, uno dei
posti preferiti per pensionati e villeggianti britannici.
Salazar fu uno degli uomini più notevoli da me incontrati. Se ne parlava
come dittatore del Portogallo ma ciò era lontano dalla realtà. Un uomo
pacifico, dimesso, un docente universitario che aveva ricevuto il
mandato di mettere in pratica la sua filosofia per risolvere i problemi
del paese. Riuscì talmente nel compito da trovarsi sempre più coinvolto
nella politica portoghese fino ad essere spinto ad accettare la
posizione di presidente. Viveva in una casa modesta, con una sola
guardia del corpo a controllare l’entrata. Un segretario mi accolse e
condusse al suo ufficio, che era confortevole e sobrio. Mi piacque,
poiché mi rammentò il mio ufficio, che di solito la gente riteneva
inadeguato a un premier. I suoi occhi erano di un blu limpido, aveva
capelli grigi e naso aquilino. Il suo volto manifestava il suo carattere
e parlava in tono quieto e misurato. Le sue azioni erano cariche di
dignità ed ogni cosa intorno a lui dava l’idea della sua sobrietà, la
caratteristica che rappresenta forse l’ingrediente più prezioso in un
uomo di cultura.
Avevamo molto di cui parlare, siccome avevamo molto in comune: la nostra
consapevolezza del piano russo per dominare il mondo e della
penetrazione russa nel continente africano. Ancor più insidiose le loro
mosse in Medio Oriente e Sud America. Di fronte a questo problema
Salazar era attonito per la immobilità delle maggiori potenze del mondo
libero. Dimostrò particolare apprensione per la Rhodesia, assicurando
che il Portogallo avrebbe perseverato nella sua politica di evoluzione
in Mozambico ed Angola, progettando di permettere ai locali di accedere a
ruoli di rilievo solo quando si fossero dimostrati pronti. Era d’altra
parte evidente che la Gran Bretagna pendesse sempre di più dalle labbra
dei premier africanisti del Commonwealth ed era ovvio che questi ultimi
venivano manipolati come strumenti di potere dai russi. Era
particolarmente infastidito dal fatto che, anche sapendo la verità,
Londra lasciasse fare pur di cercare di salvare capra e cavoli. Le sue
fonti accertavano questi fatti e fu ben felice di condividerle con me.
I portoghesi avevano appreso dall’esperienza che i governi britannici
non erano sempre degni di fiducia. Pensavo che Londra sarebbe stata
interessata al nostro punto di vista? Proseguii parlando delle nostre
vicissitudini e dissi che sarebbe stato difficile per Londra rinnegare
gli accordi presi con noi. Egli mi assicurò di aver meticolosamente
seguito la nostra storia, per il nostro comune interesse nell’area, e a
suo avviso non c’erano dubbi sulla correttezza della nostra causa. Era
persuaso che quello che noi facevamo era nell’interesse della nostra
popolazione nera, quanto di quella bianca. Poi, parlando con
circospezione ed esitazione, mi domandò cosa pensavo di fare nel caso i
britannici avessero perseverato nella loro intransigenza nei nostri
confronti. Risposi che mi consideravo un uomo paziente, per natura
ostile all’impeto, ma che se infine fossimo arrivati alla conclusione
che nessuna negoziazione era più possibile, nel caso la Gran Bretagna
non avesse avuto intenzione di onorare i suoi impegni, espressamente per
il desiderio di accontentare gli africanisti, allora onestamente gli
risposi che senza ulteriori indugi avremmo preso la situazione nelle
nostre mani e avremmo dichiarato l’indipendenza.
Subito la sua faccia, seria ed impassibile, si illuminò, i suoi occhi e
la sua bocca sorrisero. Non parlò, ma capii di averlo entusiasmato.
Lentamente si alzò dalla sua sedia, venne verso di me e mi strinse
calorosamente la mano per poi tornare a sedere. Disse che era colmo di
felicità nel vedere un uomo che aveva il coraggio di porre gli interessi
del suo paese davanti e che non avrebbe potuto fallire nel piano, da
quello che aveva spiegato. Sfortunatamente era convinto che i britannici
non avrebbero onorato i loro impegni con noi, con la conseguenza
prospettata da me. Il Portogallo ci avrebbe fornito tutto quello di cui
avessimo avuto bisogno, e secondo le sue fonti anche il Sudafrica. Mi
disse che non sarebbe stato facile, ma conoscendo il calibro del mio
popolo lui sarebbe stato soddisfatto di vederci vincere.
Trovai impressionanti la semplicità, sincerità e quieta determinazione
di quell’uomo e quell’incontro rimarrà per sempre con me, come
un’indimenticabile esperienza. Pensai che quell’uomo fosse di grande
onestà e dedizione e che avrebbe mantenuto la parola. Purtroppo per noi,
non era giovane e l’età ce lo portò via anzitempo. Fosse rimasto per
una decina d’anni in più la Rhodesia sarebbe sopravvissuta.
Un’altra personalità fuori dal comune che incontrai a Lisbona, fu il
ministro degli Esteri, Nogueira, che aveva un’incredibile dimestichezza
con la scena geopolitica mondiale, applicandovi un’analisi ed un
ragionamento con i quali assorbiva totalmente l’attenzione. Parlava
inglese come fosse stata la sua lingua madre, ed era fluente in altre
lingue. La moglie, cinese, parlava fluentemente ancora più lingue del
marito. Non era solo molto intelligente, ma affascinante e bellissima.
La trattative a Downing Street ripresero
lunedì 7 settembre. L’atmosfera era piacevole ed il tono costruttivo.
Home apparve sinceramente interessato a raggiungere un accordo, ma in
uno spazio ovviamente delineato dai premier del Commonwealth. Il tema
era la nostra abilità di soddisfare il governo britannico sul fatto che
le nostre proposte avessero il più ampio consenso delle persone di cui
trattavano. Non ci furono problemi per noi, ancora una volta evidenziai
il nostro piano. Avremmo tenuto un referendum rivolto a tutti gli aventi
diritto di voto. Sapevano che non c’erano limitazioni razziali nel
nostro sistema. Il fatto che i nazionalisti neri avessero fatto del loro
meglio per boicottare le elezioni fino ad allora, non poteva ascriversi
fra le nostre responsabilità. Coloro che seguivano quei consigli
intimidatori, non avevano che da biasimare loro stessi. Poi c’era il
problema di tre milioni di uomini delle tribù e contadini, che non
avevano educazione e non sapevano né leggere né scrivere, i quali però
avevano il loro sistema tradizionale che li aveva sempre serviti
efficientemente. A livello di clan era come una grande famiglia dalla
quale il capo emergeva naturalmente e, fino a quando era all’altezza
della fiducia e del rispetto dei suoi, egli era un rappresentante e
portavoce. Quando sorgevano problemi si riunivano in assemblea, per
problemi più vasti, sceglievano rappresentanti più alti per portare le
loro istanze a un livello più elevato, fino al consiglio nazionale.
Non conosco un metodo che consenta una più onesta e genuina
rappresentatività diretta, traendo linfa dalla base e assicurando che le
opinioni del popolo siano accuratamente sviscerate e comprese. Un
sistema alieno da corruzione, nepotismo, intimidazioni, propaganda e
lavaggio del cervello, tutti quei mali ed ingredienti indesiderabili che
fanno parte dei governi più moderni. Coloro che vivono in Africa
sub-sahariana e capiscono i costumi e le tradizioni dei diversi popoli
locali non possono che condannare le azioni dei maggiori paesi
democratici, nella loro tipica arroganza, di imporre a sistemi come
questo di sottomettersi come condizione preliminare per l’indipendenza. I
paesi africani sono stati obbligati ad abbandonare questi sistemi
tradizionali, provati e testati, per rimpiazzarli con il modello della
democrazia occidentale. E ovunque ciò è stato messo in pratica ne è
risultato un disastro, in totale antitesi con le previsioni. Un’elezione
e poi basta. L’Africa sub-shariana odierna è dominata da dittature
monopartitiche e militari, bancarotta e caos. Se solo le persone si
muovessero dalle loro poltrone e venissero a vedere con i loro occhi!
devo ancora trovare uno solo, che dopo aver visitato l’Africa, non si
sia convinto delle nostre ragioni. È facile, quando vivi a migliaia di
chilometri, prescrivere soluzioni, sapendo che qualsiasi cosa succederà
non dovrai convivere con i suoi risultati. La migliore garanzia che il
mondo dovrebbe avere è che noi ci siamo dedicati a cercare le migliori
soluzioni per tutto il nostro popolo rhodesiano, a prescindere dalla
razza, dal momento che noi ed i nostri figli avremmo dovuto convivere
con i risultati delle nostre scelte. Certamente non potevamo permettere
di essere usati come marionette per far contenti i nazionalisti.
I nostri interlocutori del governo ci ascoltarono pazientemente. Home
replicò dicendo che, mentre il mio tema era convincente per loro, la
maggior parte degli altri governi post-coloniali lasciava molto a
desiderare. Sfortunatamente, giudicando dalle ultime riunioni, né il
Commonwealth, né l’ONU, avrebbero accettato il nostro piano. Il governo
britannico si aspettava da noi che trovassimo il modo di coinvolgere più
dei mille membri dell’Indaba, il consiglio tradizionale.
Feci tre obiezioni: che la maggior parte degli uomini delle tribù
ignorava cosa fosse una costituzione, non avevano nella loro vita mai
votato in una elezione o referendum come intendiamo noi e soprattutto
ogni tentativo di insegnare loro le intricate involuzioni della nostra
non semplice costituzione sarebbe stato non solo arduo, ma disonesto.
Ogni simile tentativo sarebbe stato un attentato all’autorità dei capi
ed alla tenuta del loro sistema. Avremmo fatto credere agli uomini delle
tribù che i loro leader non erano davvero leader e che qualcosa al di
là della loro comprensione era stato introdotto sulle loro teste per
sostituirli e sradicarli. Ciò significava aprire un ampio territorio di
caccia per gli estremisti. Qualsiasi cosa mantenesse un senso della
legge e dell’ordine, regolasse e servisse il popolo, preservando una
loro idea di giustizia e libertà, era un argine contro l’estremismo. Dal
momento che la maggior parte degli stati membri del Commonwealth e
dell’ONU era comunista non c’era possibilità di immaginare niente di
buono.
Fui accusato di fare ostruzionismo e di non essere realista. Al
contrario, cercavo di convincerli realisticamente che i rhodesiani
avrebbero dovuto convivere con i risultati delle loro scelte. Avremmo
dovuto accettare qualcosa che avrebbe certamente rovinato il nostro
paese. Non potevamo farlo, se fossimo stati messi di fronte a questo non
avremmo potuto far altro che prendere la nostra strada. Home parlò
severamente contro questa opzione, avvisando che ci sarebbero state
serie conseguenze per noi. Li assicurai di aver fatto i nostri conti e
di non essere ciechi. Tuttavia questo sarebbe certamente stato
preferibile all’alternativa offertaci.
Avevamo passato ore in discussioni intense, decidemmo di aggiornarci
l’indomani. Cenammo con Alec Home e signora e vari altri dignitari. In
quell’occasione capii quel che avevo sospettato. Con le elezioni alle
porte, per i tories sarebbe stato impegnativo e controverso attuare una
simile decisione, attirando su di loro l’odio dell’establishment di
sinistra. Home assicurò che in caso di vittoria saremmo arrivati ad un
accordo nel giro di un anno. Prima della prossima conferenza dei premier
del Commonwealth e senza elezioni dietro l’angolo.
(…) Mi convinsi che se non fosse stato per l’ONU e i premier
africanisti, non sarebbe stato difficile raggiungere un accordo nemmeno
con i laburisti.
(Il governo rhodesiano fece la dichiarazione unilaterale di indipendenza l’anno seguente, 11 novembre 1965, non avendo trovato un accordo con il nuovo governo laburista).
I rinnovati sforzi per l’organizzazione del nuovo stato, nel biennio 1967-1968: senza paura.
Con l’arrivo del nuovo anno, il 1967,
facemmo il punto della situazione. Benché stessimo fronteggiando le
sanzioni meglio del previsto, esse erano comunque un impedimento
notevole ed avremmo preferito non averle. Pianificammo di ridurre la
produzione di tabacco poiché le riserve di tabacco erano al di sopra del
solito. Questa non fu una bella notizia, poiché il tabacco era il
nostro principale prodotto d’esportazione e la nostra principale fonte
di reddito e impiego. Avviammo un programma per incoraggiare ed
assistere i nostri coltivatori di tabacco a diversificare con altre
colture. Non di meno il nostro bilancio era sano e c’era uno sviluppo
economico positivo che copriva un’ampia gamma di attività, con notevoli
investimenti nell’attività estrattiva mineraria. Mentre il nostro
scambio con la Gran Bretagna era in calo, il vuoto era stato subito
riempito da nuovi partner quali Francia, Giappone, Germania, Italia e
numerosi altri paesi più piccoli. Non importavamo più trattori e
impianti dalla Gran Bretagna e dagli USA, ma da Francia e Giappone. Chi
cercava di fermarci con le sanzioni era nel suo pieno sforzo e faceva
fiorire sempre nuovi problemi.
Voglio ricordare un’occasione che scaldò il mio cuore. Possediamo in
Rhodesia, a Selukwe, mia cittadina natale, il cromo migliore del mondo.
Proprietà di uno dei grandi consorzi americani. A causa delle sanzioni,
essi persero il diritto di esportare quel cromo ai loro impianti in USA.
Fortunatamente, data la sua alta qualità, non abbiamo avuto difficoltà a
rimpiazzarli. Vendevamo quel cromo all’Unione Sovietica, la quale a sua
volta vendeva cromo di qualità inferiore del nostro, a prezzo doppio,
agli USA. Questo era il prezzo che gli americani erano disposti a pagare
pur di boicottarci.
E non era tutto. La maggior parte dei nostri mezzi di trasporto,
macchinari agricoli e trattori venivano dagli USA. Furono tagliate le
importazioni, ma abbiamo trovato altrove ciò di cui avevamo bisogno, non
siamo stati danneggiati da questa mossa, ma gli americani hanno perso
un grosso cliente. Inutile dire che il contribuente medio statunitense
pagò invece molte delle sue tasse per sussidiare gli stati africanisti
dominati da dittature, nella loro lotta contro un piccolo paese
africano, la Rhodesia, che era uno strenuo sostenitore del mondo libero e
della libertà d’iniziativa, che aveva sempre combattuto al fianco di
Gran Bretagna e USA nella lotta per la democrazia, la libertà e la
giustizia, contro i demoni del nazismo e degli estremismi. Nessun
politico USA fu mai capace di giustificare queste decisioni.
Sfortunatamente registrammo il primo incremento di terroristi negli
attacchi contro la Rhodesia, il loro primo obiettivo erano le persone
delle tribù, semplici, non sofisticate, i lavoratori delle fattorie che
non capivano cosa stesse accadendo. Venivano forzati, pistola alla
tempia, a dare tutto quello che avevano, cibo e rifugio. Uno dei più
rispettati e colti capi matabele, Sigola, invitò il segretario generale
ONU a visitare la Rhodesia, scrivendogli queste parole:
La Rhodesia è un paese pacifico. Non c’è la guerra qui, solo le vostre chiacchiere d’oltremare potrebbero provocarla. La nostra unica fonte di preoccupazione sono i terroristi armati dalla Cina e dai paesi comunisti senza libertà di parola né un sistema multipartitico. Perché mai l’ONU, che dovrebbe conservare la pace, dovrebbe intervenire nel nostro pacifico paese? Nella nostra lingua sindebele c’è un proverbio che dice che non si possono tenere due tori nella stessa stalla. Ebbene il nostro toro lo abbiamo ed è il nostro governo. Non vogliamo interferenze da nessun altro.
Inutile dire che non ebbe mai la cortesia di ricevere una risposta.
Anche dai membri neri dell’opposizione in parlamento ci fu una netta
condanna del terrorismo. Uno fece un appello ad ogni cittadino per
prendere le armi e difendere il paese dagli infiltrati terroristi
stranieri che uccidono per il gusto di uccidere e rapinano i più poveri,
anziani, indifesi. Addirittura un altro membro nero del parlamento
denunciò il fatto che i terroristi fossero pedine britanniche per
giustificare un’invasione della Rhodesia ed un altrò affermò che pur
essendoci profonde differenze fra noi del governo e l’opposizione,
saremmo comunque stati una sola nazione nella difesa dell’ordine e della
legge. Altri membri ancora invitarono il nuovo premier britannico
Wilson a protestare contro lo Zambia (che ospitava e foraggiava i
terroristi ed interferiva nella politica della Rhodesia), dal momento
che proclamava di essere difensore dell’autonomia dei popoli africani.
Da parte mia protestai con Londra, accusandoli di permettere allo Zambia
di proteggere i terroristi ed attaccare subdolamente la Rhodesia.
Affermai che le prime vittime del terrorismo erano persone nere,
disarmate, torturate, minacciate, derubate e uccise per aumentare la
paura e la sottomissione della popolazione di colore. Sapevamo che
l’ambasciata britannica a Lusaka era a conoscenza di tutto e da quanto
sapevamo non stavano solo lasciando fare, ma stavano addirittura
promuovendo l’impegno del presidente Kaunda contro di noi. Ma Wilson
ignorava i nostri messaggi di denuncia su questi gravi fatti provati e
viceversa ci interpellava solo quando voleva ottenere qualcosa da noi.
Per qualche mese ci furono voci secondo le quali Wilson avrebbe voluto
di nuovo parlare con noi. Non mi avrebbe stupito, data la sua abitudine
di cambiare bandiera, fingendo di rimanere costante. In un momento,
trovandosi fra i suoi amici africani e asiatici, ero il peggior diavolo
sulla faccia della terra, che egli non avrebbe mai voluto incontrare.
Ma, il momento successivo, se per altri motivi gli fosse convenuto,
avrebbe immediatamente cambiato la musica e sarebbe stato l’unico
interlocutore ragionevole sulla scena, parlando con i miei colleghi di
governo. Quindi non ci stupì quando inviò Lord Alport a Salisbury
(odierna Harare), il 13 giugno 1967, per uno scambio di vedute. Wilson
capiva che le sanzioni non stavano funzionando. Non fummo colpiti da
Alport, che aveva già servito la Rhodesia durante l’epoca della
Federazione, tuttavia egli dimostrò impegno e riportò a Londra la
notizia che non solo le sanzioni non sembravano avere avuto efficacia,
ma probabilmente ne avrebbero avuta sempre meno in futuro. Diede a
Wilson e ai laburisti notizie che apparvero loro molto deprimenti: il
fatto che avesse trovato la maggior parte dei neri con i quali aveva
parlato, tanto ansiosa quanto noi di arrivare al riconoscimento del
nostro governo. Si era ormai alla fine di luglio.
Il nostro ministro delle Finanze, John Wrathall, mi confermò lo stato di
salute della nostra economia e annunciò in pubblico che le esportazioni
britanniche in Rhodesia rimanevano sorprendentemente alte nonostante le
sanzioni. Wilson aveva bisogno della Rhodesia per far contenti i
terzomondisti e riempire le prime pagine dei quotidiani, in modo da
distogliere l’attenzione dal caos che stava vivendo l’economia
britannica. Simbule, ambasciatore dello Zambia a Londra, aveva detto che
la Gran Bretagna era come un bulldog sdentato che scodinzolava di
fronte a Ian Smith. L’accettazione di un ambasciatore è sempre soggetta
all’approvazione del governo e ci sono casi nei quali un ambasciatore è
anche stato rimandato come indesiderabile. Certamente noi non avremmo
accettato un tale insulto da un ambasciatore. A Londra invece fu accolto
a braccia aperte!
(…)
È interessante ricordare che, quando i Comuni dibatterono, a giugno, la
decisione di Wilson di promuovere le sanzioni ONU, i conservatori si
lanciarono all’attacco, con Alec Home che accusò il governo laburista di
incoraggiare il terrorismo contro la Rhodesia e Patrick Wall che parlò
di un “vile attacco, imposto dall’ONU, contro i nostri connazionali in
Rhodesia”.
Furono sequestrati i passaporti di diversi cittadini rhodesiani in
visita in Gran Bretagna e messi al bando da tutte le competizioni le
squadre e gli sportivi rhodesiani.
(…)
La più grande incursione cominciò all’inizio del 1968, quando i
terroristi prendevano tempo per pianificare attentamente, muovendosi nel
cuore della notte, nelle zone più marginali e selvagge del paese. Non
stavano solo seminando il terrore nelle tribù, ma stavano anche mettendo
in pratica le tattiche psicologiche inculcate loro dal
marxismo-leninismo. Dicevano a chi incontravano che loro volevano
togliere tutto ai bianchi per ridistribuirlo ai neri. Le persone
semplici, che vivevano lontane dal mondo e non sapevano cosa stava
succedendo, erano facili bersagli. I terroristi avevano i loro
accampamenti nelle montagne boscose, oltre il fiume Zambesi. Avevano una
serie di rifugi sotterranei dove si nascondevano e tenevano le loro
armi, da dove partivano i loro attacchi alle fattorie. Nonostante tutte
le loro precauzioni, comunque, dovevano aver realizzato che era solo
questione di tempo e sarebbero stati scoperti. Un ranger che passava
nella zona ci avvisò di impronte di stivali sospette, che si scoprì
essere forniture cinesi. L’allarme era scattato. I terroristi erano ben
armati ed opposero resistenza, ma alla fine riuscimmo a respingerli
oltre il confine e un centinaio cadde sul campo. Avevano un
considerevole arsenale ed anche scorte di cibo e vestiti, di origine
cinese. Malgrado Londra negasse ogni coinvolgimento, fummo soddisfatti
del nostro report da Lusaka che ci dava prove sul fatto che fornissero
assistenza economica e documenti di viaggio ai terroristi.
Un altro evento importante fu la comparsa sulla scena, nel giugno 1968,
del mio vecchio amico Max Aitken, figlio di Lord Beaverbrook, uno dei
maggiori sostenitori di Churchill e ministro nella Seconda Guerra
Mondiale. Max era succeduto al padre come dirigente dell’azienda
editoriale Beaverbrook, ed io avevo mantenuto contatti con lui che
risalivano a quando eravamo piloti in Egitto. Il Daily Express ed il
Sunday Express adottarono sempre un onesto e realistico approccio al
problema rhodesiano. Aitken visitò in segreto la Rhodesia e tentò una
mediazione con il governo.
(…)
La nuova tattica wilsoniana non si fece aspettare a lungo. Thomson,
nella veste di nuovo ministro senza portafoglio, volò a Salisbury il 2
novembre, accompagnato da un volto nuovo, Maurice Foley, ministro di un
nuovo ibrido, il ministero degli Affari Esteri e del Commonwealth. Erano
accompagnati anche da uno dei maggiori diplomatici britannici, Denis
Greenhill, con il quale avevamo già lavorato e che avevamo già trovato
comprensivo nei nostri confronti. Il confronto fu cordiale e
costruttivo, almeno in superficie, ma ci domandavamo cosa stesse
succedendo dietro le quinte, durante i frequenti aggiornamenti. Il
nostro giorno dell’Indipendenza, l’11 novembre, che coincideva con il
giorno dell’Armistizio, si stava avvicinando rapidamente e in maniera
imbarazzante per i politici britannici, quindi scelsero una ritirata
strategica, partendo due giorni prima e tornando due giorni dopo,
utilizzando quei giorni per visitare i loro sodali nei paesi vicini.
Ancora una volta era evidente che Londra non osava prendere decisioni
senza consultare i sodali del Commonwealth. La loro tattica era cercare
di spremerci il più possibile. Ma io non mi stancai di ribadire ciò che
avevo già detto in più di un’occasione: se per loro era facile parlare
perché stavano giocando, noi parlavamo del futuro delle nostre vite e
non potevamo cedere sui principi fondativi.
Fecero ritorno a Londra il 16 novembre. Le riunioni erano andate avanti
oltre ogni precedente durata di simili sessioni, ma con scarsi
risultati. Forse posso citarne due: primo, una dichiarazione di accordo
sul fatto che “la nuova costituzione continua sulla direzione indicata
dalla costituzione del 1961, per un progressivo avanzamento del
principio di governo della maggioranza”. Questo era un punto fermo che
brillava nella nuova costituzione e lo menziono solamente per affossare i
proclami dei movimenti terroristici, ripetuti ad nauseam dal presente
governo zimbabwiano, ovvero che la nostra dichiarazione unilaterale di
indipendenza era motivata dal desiderio di perpetuare il potere della
minoranza bianca. Secondo, gli inviati di Londra ci chiesero che le
organizzazioni terroristiche ZANU e ZAPU, addestrate da istruttori
sovietici, cinesi, cubani e libici fossero riconosciute come partiti.
Questo avrebbe solo potenziato la loro strategia del terrore e
dell’intimidazione. Noi avevamo le prove delle misure barbare che erano
pronti ad usare contro le masse per vincere le elezioni. Replicai a
Thomson e Foley chiedendogli se per caso avessero anche in previsione di
suggerire la restaurazione e il riconoscimento del partito nazista e
della svastica? Per noi tale richiesta significava la stessa
mostruosità.
Come parte del mio discorso alla Rhodesia, il 19 novembre 1968, dissi:
Dopo aver ascoltato quanto vi ho detto, sono sicuro accetterete la validità della mia accusa, che l’attuale proposta è infinitamente peggiore delle precedenti. Stento a credere sia stata fatta seriamente. Ci era chiaro che i britannici fossero ossessionati, durante tutte le riunioni, dalla questione del governo di maggioranza nera e ciò influenzava ogni loro pensiero. Loro sono preparati a venderci, noi rhodesiani crediamo invece che qui ci sia spazio per tutti i rhodesiani, neri e bianchi. Ogni ulteriore suggerimento simile è per noi inaccettabile.
Le porte per la negoziazione rimanevano
aperte ed aggiunsi che in ogni caso, anche non fossimo arrivati ad un
accordo, Londra si stava solo preparando ad un estenuante confronto con
noi, che saremmo arrivati alla nostra destinazione, prima o poi,
qualsiasi cosa fosse successa.
Significativamente, nel giorno dell’Indipendenza, la nuova bandiera
rhodesiana, verde e bianca, fu issata per la prima volta e fu ammainata
quella britannica. Fu un momento di malinconia, che non sarà mai
dimenticato da chi vi partecipò. Era il culmine delle azioni dei passati
governi britannici, conservatori o laburisti, colpevoli di blaterante
disonestà, tradimento degli accordi, in appoggio al nazionalismo
estremista africano. Se Londra non ci avesse abbandonati, la Rhodesia
sarebbe rimasta come un baluardo degli ideali liberali e democratici
britannici, opposta alle dittature monopartitiche africane, e avremmo
ancora avuto una Union Jack in Africa, invece di un uccello zimbabwiano
sovrapposto a una stella rossa marxista.
Il nostro pil era alto e l’industria quanto l’edilizia in sviluppo. A
causa delle sanzioni esportavamo applicando degli sconti ed importavamo
con dei rincari e ovviamente ciò metteva a dura prova la tenuta delle
finanze, ma grazie agli sforzi di tutti i rhodesiani, neri e bianchi, la
nostra bilancia dei pagamenti era sotto controllo, e soprattutto, il
morale della popolazione era alto.
Seguimmo con interesse la conferenza dei premier del Commonwealth, che
si teneva a Londra, il 7 gennaio 1969, e mi godetti le notizie piccanti
che ci arrivavano. Indira Gandhi annunciò che l’India si sarebbe
ritirata dal Commonwealth per assenza di credibilità. Il premier di
Singapore espresse la sua disillusione. Ayub Khan si disse disperato e
non passò molto che anche il Pakistan uscì dal Commonwealth. L’Africa
sub-sahariana come sempre in subbuglio. Kenya, Uganda e Tanzania erano
dittature monopartitiche ed erano impegnati ad espellere gli asiatici
nonostante fossero nati in quei paesi. Kaunda era da poco al potere in
Zambia che già aveva di fatto imposto un governo a partito unico. La
Nigeria era immersa fino al collo in una sanguinosa guerra civile e
quasi ovunque, anche in Africa Occidentale, i governi si erano
sbarazzati delle opposizioni.
Quando i giornalisti interrogarono il governo Wilson in merito alle
violazioni dei diritti umani in quei paesi, egli replicò che Londra non
interferiva negli affari interni dei paesi membri del Commonwealth!
Tuttavia gli affari interni della Rhodesia erano il primo tema in agenda
da mettere sul tavolo a ogni loro conferenza.
(…)
Il capo dell’opposizione nel nostro parlamento, Percy Mkudu, un uomo
rispettato sotto tutti i punti di vista, si recò alla conferenza dei
paesi africani a Dar es Salaam, per proporre il pacifico riconoscimento
della Rhodesia, poiché erano le persone nere che soffrivano e venivano
uccise dai terroristi. Gli fu detto che siccome egli accettava il nostro
governo non era autorizzato a prendere la parola, pertanto fece subito
ritorno a Salisbury.
Andavo d’accordo con Mkudu ed insieme abbiamo fatto molte discussioni
costruttive. Egli vedeva il bisogno di un cambiamento evolutivo
nell’elettorato rhodesiano e riconosceva l’importanza del ruolo giocato
in questo progresso dall’integrazione del sistema politico su stampo
europeo con quello tribale tradizionale locale. Riconobbe sempre gli
elevati standard di vita raggiunti dalla popolazione nera delle città,
in molti casi nettamente superiori alla maggioranza della popolazione
urbana bianca. Egli riconosceva, come i suoi colleghi dell’opposizione
parlamentare, il tremendo stato di corruzione e violazione dei diritti
umani nei paesi intorno a noi ed era d’accordo con la via intrapresa per
evitare una simile evoluzione delle cose in Rhodesia. Da parte mia
apprezzavo la sua moderazione, che era coraggiosa siccome sarebbe stato
visto dai terroristi come un “collaborazionista”.
Il nostro maggiore problema era far capire alla Gran Bretagna e al resto
del mondo libero cosa fosse l’Africa, dove ricchi dittatori,
contravvenendo alla loro superficiale fede comunista di comodo, vivevano
come re, mentre i loro popoli degeneravano in povertà, malnutrizione e
totale mancanza di libertà. Noi capivamo che era nel nostro più ovvio
interesse offrire a tutti i rhodesiani, neri e bianchi, i più elevati
standard possibili in ogni campo, educazione, salute, abitazioni e
benessere economico, crescita sociale. Sotto il nostro governo gran
parte dei neri sono diventati proprietari.
Ma Harold Wilson ed il partito laburista continuavano a lavorare contro
di noi. Stavano percorrendo la via comoda di accontentare in tutto i
dittatori africani, senza affrontare seriamente il problema delle
dittature e dei diritti umani in quei paesi.
Non solo visitatori e turisti d’oltremare, ma anche membri del
parlamento di Londra, in visita per trovare prove contro di noi,
dovettero riconoscere che in nessuno dei paesi circostanti era stato
fatto tanto quanto da noi per la popolazione africana. Avevamo costruito
migliori scuole, migliori ospedali, migliori case, migliorato i servizi
pubblici e in generale alzato la qualità della vita di tutti. Avevamo
anche una pace sociale unica al mondo e un crimine in netto calo.
Tuttavia l’ONU, con l’appoggio degli USA e della Gran Bretagna, aveva
passato una risoluzione la quale dichiarava che la Rhodesia era “una
minaccia per la pace nel mondo”.
Come scrisse lo storico Kenneth Young nel suo volume Rhodesia and Indipendence:
Dopo quattro anni di lotta pareva che la Gran Bretagna fosse finita, nella sua guerra contro il suo minuscolo avversario africano, con il suo piccolo bilancio, le sue ridotte esportazioni, il suo esercito in miniatura. Ma lo spirito ed il coraggio che avevano fatto grande la Gran Bretagna non si era estinto, era emigrato (in Rhodesia).
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